La donna nei racconti di viaggiatori, conquistadores e missionari all’epoca delle prime spedizioni oltreoceaniche di Renata Procacci

Fino all’anno 1492 le occasioni di conoscere popoli e culture diversi dai propri erano state rare per gli europei. Mercanti e missionari avevano percorso la via delle Indie spingendosi talvolta fino alla Cina e alle coste africane; fu però solo con la spedizione di Colombo alle Americhe e con i sempre più frequenti viaggi oltreoceanici verso i nuovi continenti che le nazioni europee ebbero modo di confrontarsi con civiltà e modelli di vita spesso opposti ai loro. Il disprezzo “razziale” che si sarebbe imposto tra il XIX e il XX secolo verso tutte le culture extraeuropee (in seguito al diffondersi delle dottrine evoluzionistiche darwiniane) è ancora assente in questi primi esploratori che osservano con un certo rispetto gli abitanti delle terre scoperte; malgrado qualche tocco di distaccata superiorità o di ironia, traspare spesso dalle relazioni e dai diari di viaggio un’aperta simpatia e talvolta perfino un senso di ammirazione nei confronti degli indigeni: è il caso di studiosi e naturalisti quali Thomas Hariot, Jacques Le Moyne de Morgues, L.A. de Bougainville, il barone de La Hontan, Lionel Wafer, James Cook.
Altrove, come presso i missionari francescani e gesuiti, prevale un sentimento di pietà e commiserazione verso queste genti prive della luce della religione cristiana e condannate a vivere in condizioni così primitive e dure: sacerdoti cattolici arrivati al seguito dei conquistadores e dei coloni francesi si sentono investiti da Dio della missione di recarsi presso gli indigeni per istruirli nelle verità della fede cristiana e riscattare le loro anime dalle insidie del demonio.

Figurae variae cum hominum, tum animalium Asiae et Africae in lingua Lusitana

A seconda che prevalga l’uno o l’altro atteggiamento, le donne amerinde, australiane o polinesiane, alle prese con le dure esigenze della vita allo stato di natura e con lavori la cui pesantezza non è alleviata da nessuno dei comforts di cui usufruiscono le loro consorelle europee, vengono ammirate o compiante; sempre però si hanno parole di elogio per il coraggio, la laboriosità, la silenziosa tenacia con cui provvedono al sostentamento del gruppo familiare e della tribù, strappando giorno dopo giorno alla terra, al mare o alla foresta il cibo necessario per sé e per i propri cari, senza lasciarsi spaventare dalla fatica e dai pericoli, dal freddo e dalla stanchezza.
Viene messo in risalto l’attaccamento di queste donne ai loro figli e ai loro mariti, il senso di solidarietà che si manifestano a vicenda aiutandosi nei momenti più impegnativi dell’esistenza femminile (soprattutto nelle ultime fasi della gravidanza e durante il parto), la spensieratezza e la gioia di vivere che traspaiono dai giochi e dagli intrattenimenti cui si abbandonano appena possono godere di un momento di tempo libero, il senso di ospitalità di cui danno prova verso gli stranieri.

Figurae variae cum hominum, tum animalium Asiae et Africae in lingua Lusitana

Talvolta si affacciano, nelle pagine di relatori e cronisti, figure individuali di donne benevole e gentili: Anacaona, sorella del re di Haiti (l’insolito banchetto da lei offerto in onore dell’ammiraglio Colombo, al quale vengono ammannite le più ricercate prelibatezze locali – come le iguane arrostite intere – è uno di quei rarissimi intermezzi nei quali Pietro Martire d’Anghiera, l’austero storico ufficiale dei “re cattolici”, si concede qualche sfumatura umoristica); o l’anonima giovane dell’isola Ferro che addita agli spagnoli stremati dalla sete il miracoloso “albero dell’acqua” (Gerolamo Benzoni, Novae Novis Orbis historiae). Anche l’ammirazione per la bellezza di queste donne e – talvolta – la constatazione della loro spensierata mancanza di inibizioni in tema di libertà sessuale (è il caso delle tahitiane per Bougainville e Cook e delle amerinde urone e irochesi per La Hontan) sono dettagli che aggiungono una nota piccante a un quadro fondamentalmente benevolo. Tuttavia altri esploratori non tardarono ad accorgersi che le donne dei nuovi continenti presentavano a volte aspetti inquietanti. Vennero scoperti indizi irrefutabili dell’esistenza di tribù (stanziate nelle foreste brasiliane, nelle Antille e nella Polinesia) in cui le donne erano addestrate nelle arti della guerra e occupavano una posizione politica e sociale preminente: gli europei le ribattezzarono amazzoni per analogia con le mitiche guerriere dell’età classica. Queste donne erano talmente energiche da essersi sapute costruire regni ricchi e potenti e da esigere tributi dalle popolazioni vicine; non tolleravano uomini tra loro se non in un determinato periodo dell’anno durante il quale facevano entrare nei confini delle proprie terre gli uomini delle tribù vicine e si congiungevano con essi ma unicamente allo scopo di generare figli (quest’ultimo particolare però è dovuto probabilmente all’immaginazione dei relatori europei: è senz’altro verosimile che esistessero in quelle località alcuni gruppi etnici governati da regine e sacerdotesse, lo è molto di meno che potessero esistere tribù formate esclusivamente da individui di sesso femminile!). Al tempo stesso le indigene che vivevano in altre regioni del Brasile e delle Antille, nonché sulle coste dell’America centro meridionale, si dedicavano a impressionanti pratiche di antropofagia.

Già gli esploratori olandesi Simon van Cordes e Sebaldt van Weert, nel XVI secolo, avevano osservato con stupore e ripugnanza un’indigena della costa magellanica che non sembrava conoscere i cibi cotti né accettava di mangiarli ma si nutriva di animali uccisi a caccia divorandone avidamente le carni crude e bevendone il sangue: usanze alimentari così primordiali non lasciavano presagire nulla di buono (Charle de Brosses, Histoire des navigations aux Terres Australes). Le testimonianze di Cristoforo Colombo, di Amerigo Vespucci, di Jean de Léry, di Hans Staden e di altri non lasciavano dubbi: alcuni popoli dei nuovi continenti praticavano il cannibalismo e le loro donne erano abituate a cuocere la carne umana con lo stesso zelo e la stessa impassibile maestria con cui le cuoche europee manipolavano la carne di vitello, di pollo o di coniglio. Le vittime di quella terribile pratica erano normalmente uomini, donne e bambini catturati nei villaggi nemici; anche per i viaggiatori europei che cadevano nelle loro mani non c’era scampo. Talvolta la bramosia di gustare carne umana – considerata un vero e proprio manicaretto – non si fermava neppure di fronte alle proprie creature: se a un’indigena brasiliana accadeva di essere posseduta da un guerriero nemico e di rimanere incinta, essa era autorizzata dalle leggi e dalla tradizione a uccidere e mangiare il figlio che sarebbe nato; e, riferisce Léry, di questa autorizzazione le indigene approfittavano immancabilmente, spinte forse più dall’avidità di gustare quella “leccornia” che dall’odio o dal desiderio di vendetta (la maternità acquistava connotati inquietanti anche presso le amazzoni: esse, stando almeno a quel che se ne raccontava, tenevano con sé per allevarle soltanto le figlie e si sbarazzavano dei figli maschi uccidendoli alla nascita o rimandandoli, appena superavano la prima infanzia, nelle terre d’origine dei loro padri).

Non stupisce che la rivelazione di certi usi e costumi fosse sconcertante per i futuri colonizzatori europei e che essi li osservassero con un misto di fascinazione, sgomento e senso di rivolta: la virago armata che dominava sugli uomini era l’esatto contrario della sposa ubbidiente e devota, sottomessa all’autorità maschile; la crudele antropofaga che si nutriva di carni di bambini – comprese quelle dei propri – era il rovescio del-la madre/nutrice che cura e protegge (e che pertanto nell’immaginario collettivo è, non può che essere, buona, tenera, affettuosa, disponibile ai più generosi sacrifici per la propria prole).
Concezioni e ruoli consolidati da secoli in Europa, e perciò stesso ritenuti indiscutibili, rischiavano di vacillare di fronte alla scoperta di realtà così radicalmente diverse. Gli europei si affrettarono pertanto a respingerle ai margini e, ove possibile, a cancellarle nei territori di cui avevano preso possesso in nome delle varie corone d’Europa, trasformando al più presto queste donne selvagge in buone cristiane e ristabilendo la familiare e rassicurante concezione dei ruoli dell’uomo e della donna che avevano portato con sé dalla madrepatria.

L’editoriale è tratto dall’articolo di Renata Procacci pubblicato con il titolo Sposa e madre in terre lontane nel catalogo della mostra Donna e’… allestita nella Biblioteca Casanatense in occasione della Giornata Mondiale dell’Alimentazione 1998. [p. 363-378]

Per saperne di più:

CATALOGO – Donna è… l’universo femminile nelle raccolte casanatensi. Milano, Aisthesis, 1998.

Le immagini che illustrano l’editoriale sono tratte dal manoscritto MS. 1889 Figurae variae cum hominum, tum animalium Asiae et Africae in lingua Lusitana. Ms. cart. sec. XVII; mm. 335×230; cc. 143
Serie di disegni a piena pagina, eseguiti a penna e dipinti ad acquerello su fogli sciolti, accompagnati da didascalie esplicative in portoghese

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