Silvestro II e la scienza dell’anno Mille

Mostra bibliografica a cura della Biblioteca Casanatense.

Coordinamento scientifico del prof. Costantino Sigismondi

mercoledì 12 maggio 2004
Biblioteca Casanatense Salone Monumentale
mostra bibliografica

Le quadrature, il calcolo di aree e volumi della Geometria di Gerberto, sono espressione di una scienza pratica, come anche le nozioni di trigonometria, funzionali alle misure siderali e terrestri con l’astrolabio. Sono esposti circa 70 cimeli tra testi manoscritti e a stampa e strumenti scientifici, suddivisi in sei sezioni: Storiografia su Gerberto, Le Rinascenze Culturali Altomedievali, Le Fonti del Trivio, L’Astronomia: Fonti e Sviluppi, Fonti del Quadrivio, La Musica attorno al Mille. La figura e l’opera di Gerbert d’Aurillac è così inserita nel contesto più ampio della storia della scienza, senza tralasciare gli aspetti più complessi della sua acquisizione e rilettura nell’ambito della storia della Chiesa. Un percorso ideale che parte dalla tradizione del sapere classico attraverso le opere dei vari Marziano Capella, Boezio e Cassiodoro, e giunge fino a Clavio e Keplero con il quale la ricerca di consonanza tra armonia musicale e moti delle sfere è sugellata all’inizio del XVII secolo, prima dell’invenzione del telescopio, vede Gerberto proprio al centro. Egli fu il massimo esponente della rinascenza ottoniana. Docente eclettico, autore di celebri scholia sui testi classici e propulsore di nuovi campi di studio, come quello della musica fuori dalle proporzioni pitagoriche classiche, e l’uso delle cifre arabe: era in netto anticipo sui tempi. Anche da Papa, Gerberto continuò la sua attività scientifica, come attestano la lettera a lui inviata sul volume della sfera, e la dedica a lui di un’opera musicale.


1 sezione: Storiografia su Gerberto – di Costantino Sigismondi, Valentina Berardini, Maurizio Martone

È noto come uomini del valore di Gerberto d’Aurillac, dotati di grande fama e di un così acuto intelletto siano inevitabilmente destinati a suscitare al tempo stesso ammirazione ed invidia. Non stupisce dunque che la sua vita ed il suo genio siano stati sempre avvolti da pregiudizi e leggende che hanno inficiato la comprensione della sua storia.
Più che la sua opera, sulla quale esiste ormai da tempo un consenso unanime, sono in realtà le vicende personali di Gerberto ad esser state a lungo argomento di vive polemiche tra gli storiografi. Le sue straordinarie conoscenze suscitarono in molti l’idea, molto spesso strumentalizzata dagli storiografi protestanti, gallicani ed ultramontani e in linea con le credenze del tempo, di un legame di Gerberto col diavolo, che gli avrebbe concesso una così vasta conoscenza scientifica.
È utile dunque andare a vedere quali sono i mezzi di cui disponiamo per una corretta conoscenza della vita e della personalità di Gerberto. In primo luogo le sue lettere, raccolte da vari monaci da documenti manoscritti e infine dall’abate Migne nel 1853 nel volume 139 della monumentale Patrologia Latina, insieme ad alcune sue opere matematiche e agli Atti del Concilio di Saint-Basle (991) di cui Gerberto è stato redattore.
L’opera del Migne si basava sul materiale raccolto dal Duchesne nel 1636, che a sua volta si rifaceva alla pubblicazione del 1567 da parte di Matthias Illyricus, nelle Centurie di Magdeburgo, degli Atti del Concilio di St.-Basle, dove si voleva mettere in evidenza il tono acceso del discorso di Arnolfo di Orléans – redatto da Gerberto – contro il papato di quei tempi.
Questa pubblicazione era strumentale alla polemica protestante, e fu poi altrettanto strumentale per il gallicanesimo e l’ultramontanismo del secolo successivo che volevano presentare Gerberto come loro predecessore. Furono proprio i protestanti a rivangare le leggende su Gerberto che Ademaro di Chabannes e Guglielmo di Malmesbury avevano diffuso dopo la sua morte, su un suo preteso commercio con il diavolo che gli avrebbe garantito quella conoscenza scientifica fuori dal comune, più il pontificato. Tra queste leggende val la pena ricordare quella, sempre dovuta ad Ademaro, secondo la quale Gerberto avrebbe ordinato di tagliare a pezzi il suo cadavere. Questa leggenda si ritrova nelle molte fonti, apocrife e non, di oggi: Internet, storie di papi e manuali di storia di editori poco scrupolosi.
Il canonico lateranense Rasponi riporta che nella ricognizione della tomba di Gerberto, fatta nel 1648, il corpo fu ritrovato intatto con le vesti pontificali, ma al contatto con l’aria si polverizzò, rimanendo solo l’anello e il pastorale. Questo prova l’infondatezza o la mala fede delle pseudo-fonti su Gerberto mago. Questa informazione la si può leggere in una nota del Liber Pontificalis – testo presente in sala consultazione CONS E 140 e basato per quanto riguarda Gerberto proprio su Ademaro e Guglielmo di Malmesbury – che è una composizione del XV secolo del tutto inattendibile sul piano storico per i papi antichi .
Sulla base di queste fonti leggendarie gli storiografi del XVI secolo vollero sostenere a tesi della mancanza di continuità nella successione apostolica su cui la Chiesa basa l’autorità petrina. Poco importava se il discorso cruciale del concilio di Saint-Basle fosse in aperta contraddizione con questa pretesa accusa di simonia basata su dicerie senza fondamento, oltre all’invidia e ad una personale acrimonia.

Presentare, dunque, Gerberto senza accennare alle fonti da cui abbiamo notizie e senza tratteggiarne il loro ruolo nel corso della storia europea e della storia della Chiesa degli ultimi mille anni, vuol dire riesporre Gerberto a giudizi storici arbitrari e strumentali. Facendo così, si perde l’opportunità di avvicinarsi ad una personalità insigne per sapere e per santità di vita, come affermò Gregorio XVI nell’inviare denaro per la realizzazione della statua di Gerberto ad Aurillac.


2 sezione: Rinascenze culturali altomedievali di Paolo Calia

Le vicende culturali dell’Impero nel Medioevo vanno di pari passo con la sua situazione politica, così ai periodi di grande fervore filosofico – scientifico corrispondono epoche di concordia e stabilità, mentre nei secoli caratterizzati da contrasti tra i feudatari, minacce dall’esterno e incertezza si assiste anche alla caduta dell’interesse verso la cultura, le arti e le lettere.
All’epoca delle grandi invasioni dei barbari nell’Europa Occidentale corrisponde la fine della Patristica in Occidente e l’epoca della monarchia merovingica in Francia e della dominazione longobarda in Italia rappresenta uno dei periodi più squallidi della storia della cultura occidentale. Unica oasi di cultura in tanta desolazione, unici custodi della tradizione classica degli studi furono le regioni periferiche dell’Impero, le città dell’Italia meridionale e nei monasteri dell’Inghilterra e dell’Irlanda.
Il regno Anglosassone fu cristianizzato da Agostino di Canterbury, inviato da Gregorio Magno, nel 596, mentre l’Irlanda, miracolosamente scampata alle invasioni dei barbari, fu colonizzata alla fine del secolo precedente da San Patrizio e divenne nei secoli VI, VII ed VIII uno dei più fiorenti centri della cultura letteraria e religiosa dell’epoca. A partire dal VI secolo i monaci irlandesi iniziarono un’importante opera missionaria e culturale sul continente: particolarmente famosa è la missione compiuta da S. Colombano che, partito dall’Irlanda verso il 590, fondò in Francia i monasteri di Luxeuil e San Gallo ed in Italia il monastero di Bobbio nel 613. Non ebbero meriti minori i monaci operanti in terra anglosassone, i quali contribuirono a custodire e tramandare la cultura nei periodi di decadenza attraverso le opere dei classici greci e latini, dei padri della Chiesa, che raccolsero nelle bibblioteche dei loro monasteri, tra i quali particolarmente importanti furono quelli di York, Landisfarne, Jarrow e Wearmouth, dove visse e studiò il Venerabile Beda.

L’Impero carolingio.

L’Impero carolingio rappresentava politicamenente un modello ben diverso da quell’Impero Romano del quale Carlo Magno amava considerarsi un successore, tuttavia le differenze in ambito politico tra i due imperi erano compensate da una netta continuità dal punto di vista culturale, dovuta come abbiamo visto alla provvidenziale opera dei dottori della Chiesa che salvarono il sapere dal disastro. Ma la rinascita culturale dell’Occidente verso la fine dell’VIII secolo è dovuta anche alla dottrina politica di Carlo Magno, tutta intessuta di preoccupazioni culturali.

A differenza della Gran Bretagna, dove lo sviluppo del latino come lingua letteraria, accanto al parallelo sviluppo dei dialetti locali come lingua letteraria scritta, era stato lo strumento della sopravvivenza della cultura classica in Occidente, in Gallia questa cultura subì a partire dal V secolo un lento ma inesorabile decadimento: lo studio delle lettere era pressoché scomparso, le scuole romane erano state chiuse ed anche nelle scuole cristiane l’insegnamento era limitato alla semplice lettura e scrittura ed a qualche rudimento del latino di Chiesa. Si rendeva allora necessaria nell’Impero carolingio la fondazione di un nuovo sistema scolastico, che permettesse non solo monaci e chierici di acquistare una migliore e più corretta conoscenza del latino, affinché potessero esercitare anche cariche amministrative presso la corte come missi dominici, ma anche ai laici, ed ai sudditi stessi. Carlo Magno riteneva infatti che il buon ordine del suo Impero dipendesse dalla disciplina personale dei suoi sudditi, per questo impose come necessario l’insegnamento della dottrina cristiana in tutte le sue terre. A questo scopo col Capitolare del 789 egli ordinava che in ogni vescovado e monastero si aprissero delle scuole dove dovevano essere accolti scolari di ogni condizione. All’inizio il programma dell’insegnamento era piuttosto modesto: si insegnavano infatti la grammatica, il computo ecclesiastico e dei rudimenti di musica, ma era importante soprattutto l’intento di questa riforma, che insegnava ad essere grati a Dio non solo attraverso il retto vivere, ma anche attraverso il retto parlare. Qui Deo placere appetunt recte vivendo, ei etiam placere non negligant recte loquendo.
Per attuare questo suo programma di riorganizzazione delle scuole e del sapere Carlo Magno fece venire proprio dall’Irlanda e dall’Inghilterra Parigi i suoi collaboratori, primo fra tutti Alcuino (1), il quale già nel monastero di York, dove era succeduto nell’insegnamento ad Egberto, insegnava le arti liberali del Trivio e del Quadrivio, portando poi il suo insegnamento in terra continentale; ma anche poeti, storici, come Paolo Diacono, proveniente da una nobile famiglia longobarda del Friuli, autore dell’Historia Longobardorum (2), ed Eginardo, biografo di Carlo Magno, autore della Vita Karoli. Accanto a questi numerosi altri letterati, provenienti soprattutto dall’Italia e dalla Spagna, come Pietro di Pisa, Paolino d’Aquileia e Teodolfo d’Orléans.
Sul modello di quella palatina nacquero numerose altre scuole, tra le quali ricorderemo quella di Reims, dove insegnarono Hincmaro (3) e Gerberto d’Aurillac, quella di Fulda in Germania, dove fu abate Rabano Mauro (4) e (5) e quella di Chartres, fondata nel 980 da Fulberto.
Le opere degli eruditi di quest’epoca sono in gran parte modellate sull’esempio di quegli autori che essi non solo avevano molto ben conservato, ma letto ed analizzato attentamente; anche per questo esse si presentano spesso come compendi, a volte come riscritture di testi dei dottori passati.

L’attività della Scolastica, ovvero il movimento filosofico che si sviluppa attorno alla schola, era strettamente legata all’insegnamento, attività che si svolgeva attraverso due momenti prinipali: la lectio, che consisteva nel commento di un testo, e la disputatio, cioè l’esame di un problema attraverso la considerazione di tutti gli argomenti che si potevano addurre pro e contro. Ecco perché l’attività letteraria degli scolastici assunse prevalentemente la forma di commentari (alla Bibbia, ad Aristotele, a Boezio) o di raccolte di questioni, come ad esempio i Quodlibeta, che comprendevano questioni che gli aspiranti alla laurea in teologia dovevano discutere due volte l’anno (prima di Natale e prima di Pasqua) su temi qualsiasi.
Non discendono da questo periodo della storia del pensiero teorie e concetti filosofici nuovi ed originali, eccetto il grande genio speculativo di Giovanni Scoto Eriugena. Tuttavia questi primi dotti hanno avuto il grandissimo merito, che ha permesso poi la comparsa dei geni appartenenti ai periodi successivi, di aver promosso un nuovo fervore di studi nelle scuole e nei centri cui ciascuno di loro si trovava preposto e di aver stabilito rapporti costanti tra un centro e l’altro, in modo da unificare in un unico movimento tutta la cultura europea, creando una sorta di “rete internet” del medioevo.


3 sezione: Le fonti del Trivio di Michela Prosperi

Fra il V e il X secolo nascono dei modi di pensare, dei modelli e delle opere che formano le strutture future della mentalità e della sensibilità medievali. Come è noto in ogni civiltà esistono degli strati diversi di cultura secondo le categorie sociali e gli apporti storici. Nello stesso tempo questa stratificazione delle combinazioni costituisce anche nuove sintesi. Tale fenomeno è particolarmente sensibile nell’Alto Medioevo occidentale, dove la novità più evidente della cultura sono le relazioni che si stabiliscono fra l’eredità del paganesimo e l’apporto del cristianesimo.
Due avversari? Fino al XIV secolo ci saranno gli estremisti di due tendenze opposte: quelli che proscrivono l’uso e la lettura degli antichi e quelli che vi attingono abbondantemente. Ma l’atteggiamento fondamentale è stato stabilito dai Padri della Chiesa e definito da Agostino (10): l’autore cristiano deve fare con i modelli pagani come gli Ebrei del Deuteronomio con le prigioniere di guerra, alle quali tagliano i capelli, le unghie e danno nuove vesti prima di sposarle. Il grado di assimilazione varia da un autore all’altro e spesso uno stesso autore oscilla fra questi due poli che segnano i limiti della cultura medievale: la fuga inorridita davanti alla letteratura pagana e l’ammirazione sfrenata che porta a grandi imitazioni.
I chierici medievali troveranno pure il mezzo di utilizzare i libri pagani. Se questo compromesso ha salvaguardato una certa continuità della tradizione antica ne ha tuttavia travisato la sostanza. Ne consegue soprattutto che la duplice necessità per gli autori del Medioevo occidentale di utilizzare gli insostituibili strumenti intellettuali del mondo greco-romano e di calarli nelle forme cristiane ha favorito delle abitudini mentali molto dannose: la deformazione sistematica del pensiero degli autori, il perpetuo anacronismo, il pensiero attraverso citazioni staccate dal loro contesto. Il pensiero antico nel Medioevo è sopravvissuto solo deformato dal pensiero cristiano come testimoniano l’interpretazione neoplatonica di Platone (5), la fortuna di Plotino (6), il tentativo di Boezio (9) di conciliare filosofia platonica e aristotelica, le opere di Cassiodoro (11) e Marziano Capella (12) che possono essere considerate una summa del pensiero medievale, l’atteggiamento di Agostino nel quale convivono cultura classica e spirito cristiano.
Ciò che il Medioevo ha conosciuto della cultura antica, gli è stato lasciato in eredità dal Basso Impero. Non è da Cicerone (2, 7), pure letto in una visione distorta favorita dal commento di Macrobio al Somnium Scipionis (8), che i chierici dell’Alto Medioevo attingono il loro programma scientifico e pedagogico, ma da Marziano Capella. Non basta constatare questo regresso intellettuale. La cosa più importante è rendersi conto che esso fu un necessario adattamento alle condizioni dell’epoca. Come sostiene R.R. Bolgar a proposito dei sistemi di insegnamento di Sant’Agostino, di Marziano Capella e di Cassiodoro, “la più grande virtù delle nuove teorie fu forse quella di fornire un’alternativa ragionata al sistema di Quintiliano”.
Poichè il mondo nel quale l’arte oratoria era fiorita stava morendo e la nuova civiltà destinata a sostituirlo doveva ignorare le assemblee popolari e i trionfi del foro. Quegli uomini dei secoli futuri, la cui vita doveva avere per centro il castello o il monastero, sarebbero stati molto svantaggiati se l’educazione tradizionale, dalla quale dipendevano, avesse loro proposto un ideale che non avrebbero potuto afferrare, se Capella e Agostino non avessero sostituito Quintiliano”.

Anche se gli scrittori barbarici scrivono per un pubblico nuovo, una cultura che riconosce in Prisciano (1), Cicerone e Aristotele (3) modelli per le arti del Trivio (rispettivamente Grammatica, Retorica, Dialettica) continua a sopravvivere.
Al monastero di Saint-Géraud, Gerberto aveva imparato soprattutto grammatica. A Reims impara logica. Alla corte di Ottone III disputa di logica affrontando un passo di Porfirio. Una, è questione sottile, ed è questa: come fa Porfirio a dire “l’ente ragionevole usa la ragione”? Sembra un errore di logica perchè il predicato è meno esteso del soggetto. Gerberto, buon logico educato dalla matematica, distingue: 1) altro è il caso di “enti ragionevoli” come Dio, gli Angeli. In loro “ente ragionevole” e “usare la ragione” sono la stessa cosa. Per questo caso, va benissimo il detto di Porfirio. 2) Diverso è il caso nostro: negli uomini, altro è essere “enti ragionevoli”, cioè in grado di “usare la ragione”; e altro è usarla effettivamente. Usare effettivamente la ragione è qualcosa di più che poterla usare. Anche in questo caso, dunque, va benissimo il detto di Porfirio: in esso il predicato è più esteso del soggetto: come vuole appunto l’auctoritas di Aristotele.


4 sezione: La Musica di Costantino Sigismondi

Gerberto ha commentato, su richiesta dei suoi allievi, alcuni passi della Musica di Boezio. Questo testo del VI secolo, assieme all’opera del IV-V secolo di Marziano Capella “Le Nozze di Mercurio e della Filologia”, dove Apollo dona alla sposa le sette arti, tra le quali la musica, sono quelli che hanno avuto maggiore diffusione nell’alto medioevo. Gerberto era attivo anche come costruttore di organi, come ci è testimoniato dalle sue lettere, e dalla notizia che a Tivoli, negli Orti Estensi, egli realizzò un organo idraulico. Egli fu anche maestro della cappella palatina alla corte di Ottone III, ed è autore di un inno allo Spirito Santo, e di un trattato sulla misura delle canne d’organo “de Mensura Fistularum” precedentemente attribuito ad un suo allievo, Bernelino, dall’abate Martin Gerbert, autore nel 1784 di una raccolta di testi di scrittori ecclesiastici di musica in tre volumi. Solo nel 1970 la scoperta del “de Mensura Fistularum” in un manoscritto nella biblioteca nazionale di Madrid più antico di quello esaminato dal Gerbert, con l’attribuzione dell’opera a Gerberto d’Aurillac, ha chiarito che l’autore era proprio il futuro papa Silvestro II.
L’esposizione di un flauto dolce, che costituisce la fistula più comunemente usata oggi nelle scuole, corredato di misure e proporzioni calcolate su quello strumento, insieme alla descrizione dei fenomeni fisici che determinano la differenza tra le proporzioni in una corda armonica vibrante rispetto ad una canna dove si propagano le onde di pressione dell’aria vuole presentare questo problema anche da un punto di vista didattico. La musica mundana e l’armonia delle sfere: nel I libro della Musica, al capitolo XIII, Boezio distingue la musica in tre parti: mundana, humana e instrumentalis. Questa suddivisione seguiva l’impostazione che Aristotele aveva dato alla materia rispettivamente nel De Caelo (quanto all’armonia delle sfere cosmiche), nel De Anima, quanto al suono, e in alcune sezioni dei Problemata quanto all’acustica. La convinzione che le sfere che accolgono i moti planetari nel cosmo sia tolemaico che copernicano della prima ora, producessero con i loro moti sempiterni dei suoni per contatto, ha portato ancora nel 1619 Johannes Kepler a trovare nella sua terza legge dei moti planetari il sugello a 10 secoli di ricerca di una regolarità matematico-geometrica giustificata a priori nelle dimensioni e nei periodi dei moti planetari.

L’Harmonices Mundi è il compimento di questo percorso scientifico che aveva mosso i primi passi con Pitagora sei secoli prima di Cristo. Le note musicali: nella lettera (1032) al monaco Michele l’abate Guido d’Arezzo (992-1050) spiega l’esacordo ricorrendo ad un inno a San Giovanni di Paolo Diacono. Le iniziali delle strofe di quest’inno daranno il nome alle note della scala: Ut (che diventerà poi Do), Re, Mi, Fa, Sol, La, che nella notazione boeziana erano delle lettere: C, D, E, F, G, A, rendendo così più facile la pratica del solfeggio. Il Si si ottiene dalle iniziali di “Sancte Ioannes” con cui termina l’inno di Paolo Diacono.


5 sezione: Le fonti del Quadrivio di Silvia Mariani

Gerberto, non s’interesso soltanto di questioni teologiche e dopo aver compiuto quella parte del programma d’insegnamento che allora si chiamava trivium (grammatica , retorica , didattitica o logica) passava alle discipline del quadrivium cioè alle matematiche in genere (aritmetica, geometria, astronomia, musica )
Gli studi di arimetica costituirono sempre per Gerberto centro d’interesse, anche se per lunghi intervalli di tempo furono sacrificati agli impegni della vita politica.
Gli scritti di Gerberto, constano di spiegazioni estremamente ermetiche e stringate tanto che l’èlite intellettuale dell’epoca aveva gia riscontrato degli ostacoli nella comprensione di questi testi che apparivano inaccessibili, motivo per il quale forse così a lungo i risultati teoretici degli studi aritmetici furono trascurati.
La matematica aveva un ruolo piuttosto importante nel percorso di studi delle scuole medievali, malgrado non ci fossero, o risultassero poco reperibili testi e componimenti di studio.Possiamo considerare inoltre che le opere a disposizione degli studiosi consistevano nelle traduzioni in latino di Severino Boezio e di parti dei trattati elementari di aritmetica, geometria e astronomia di Aurelio Cassiodoro . In pratica, i problemi coinvolgevano solo le quattro operazioni tra numeri interi e, molto raramente, tra frazioni; i numeri irrazionali non comparivano affatto. In ragione di un passaggio del primo libro della Geometria di Boezio, l’aritmetica posizionale, sarebbe passata nell’opera di Gerberto.
Gerberto possedeva senza dubbio la cosiddetta “Geometria di Boezio”, che in realtà è una compilazione del secolo XI che non corrisponde a quella originale di cui non ci sono documenti esistenti
Nel X secolo l’approccio allo studio di questa materia subì una svolta con l’opera di Gerberto, che viene spesso identificato come il primo in Europa a registrare le più recentemente definite cifre indo-arabiche.
A dire il vero l’introduzione di un simbolo per indicare lo zero è un risultato dell’incolonnamento, e in sé un fatto non molto rilevante. La cultura di Gerberto era formata sugli autori classici piuttosto che sui contemporanei, perciò è interessante analizzare opere come la Naturalis Historia di Plinio, dove questi sono incessantemente citati.Egli compilò una ricca quantità di manoscritti intorno al 1100, su argomenti matematici e astronomici che rendevano evidente ai nostri occhi un passaggio alla stretta interazione fra le varie scienze e dottrine d’insegnamento.
Fibonacci, Sacrobosco, Giordano Nemorario in seguito faranno circolare in Europa l’aritmetica acquisita dagli arabi, chiamandola aritmetica indiana senza confonderla mai con la tradizione pitagorica.
L’insegnamento che Gerberto ricevette dal 967 di principi in matematica e musica da Hatton il vescovo di Vich, in Catalogna,furono determinanti . Qui era in uso il monocordo, strumento importato in Spagna dagli arabi e ancora sconosciuto negli altri monasteri d’Europa.Lo studio della matematica si è rivelato essenziale nell’ambito musicale, nella teoria dei numeri e delle proporzioni , per i rapporti pitagorici adattabili al monocordo.
Le principali tra le opere metematiche di Gerberto sono la Geometria e l’epistola ad Adelboldo di Utrecht concernente l’area dei triangoli equilateri.
Gerberto appare se non il caposcuola certo il più rilevante promulgatore della nuova aritmetica in Europa occidentale.Richerio il monaco di Reims, ci fornisce notizie dirette sull’insegnamento, limitandosi nella descrizione degli strumenti didattici adoperati da Gerberto in primis l’abaco.Per quanto riguarda questo abbiamo una sezione pur senza relazionarlo con il soggiorno nella Spagna occupata dagli arabi. Per quanto riguarda lo strumento, Richerio afferma che l’apprendimento delle operazioni su di esso faceva parte del curriculum degli studi in geometria non in maniera inferiore a quelli di astronomia.


6 sezione: L’Astronomia di Giorgio Ciliberto e Pietro Alessandro Giustini

La collezione di strumenti scientifici della Casanatense di Rita Fioravanti

L’astronomia, che secondo Cassiodoro è al di sopra delle altre discipline del quadrivio (Istitutiones), ebbe vita difficile nell’alto medioevo. Essendo il greco la lingua colta della pax romana, il dibattito scientifico si svolse prevalenetemente in greco durante l’età imperiale. Dopo lo smembramento di quest’ultimo il greco venne da molti dimenticato e poche furono le opere tradotte. Boezio si cimentò in questo lavoro ma la sua opera rimase incompiuta, perché fu condannato a morte da Teodorico e giustiziato. Il De nuptiis philologiae et Mercurii , opera allegorica di Marziano Capella (365-440) in cui sono introdotte le sette arti liberali, contiene un trattato di astronomia. Nel sistema celeste ivi esposto, il Sole, intorno al quale orbitano Venere e Mercurio, orbita a sua volta intorno alla Terra insieme agli altri pianeti. Questo sistema si combinò con un altro della tradizione di Plinio dando luogo a confusioni riguardo alle orbite di Venere e Mercurio.
Nel V secolo Macrobio elabora un commento al Somnium Scipionis di Cicerone in cui espone una cosmologia derivata da Platone e dai pitagorici. Nel trattato di astronomia in esso compreso la Terra – sferica – occupava il centro dell’universo ed era circondata dalle sette sfere planetarie, a loro volta racchiuse dalla sfera delle stelle fisse. Ruotando da est a ovest, quest’ultima compiva in un giorno un’intera rotazione, muovendo tutte le altre, le quali erano però provviste di un moto di rotazione proprio in senso opposto. Vago rimase l’ordine dei pianeti.
Nell’opera enciclopedica di Isodoro di Siviglia (560-630), ovvero nelle Etimologiae, tra le altre arti liberali è presentata anche l’astronomia. Calcidio, nella sua parziale traduzione del Timeo, presentò buona parte del mito cosmologico di Platone. Rudimenti di astronomia tolemaica sono contenuti nel commento di Teone di Alessandria (metà V secolo).
Fu attraverso le esigue informazioni ricavate da questi autori (e pochi altri) che il Medioevo attinse al patrimonio astronomico dell’antichità. In questo periodo di frazionamento politico, di continue lotte e sconvolgimenti, la cultura, profondamente segnata dalla trasformazione cristiana della società, fu confinata all’interno dei monasteri e dovette la sua sopravvivenza ai monaci amanuensi che copiarono instancabilmente questi testi diffondendoli attraverso i monasteri europei.
L’astronomia seguì dunque le vie dei monasteri, dove fu utilizzata come strumento indispensabile per la misura del tempo. Infatti, nel mondo medievale latino e cristiano il tempo dei monaci era scandito dalle preghiere e le ore erano stabilite in base a osservazioni astronomiche; anche il calendario era definito con l’ausilio dell’astronomia e di particolare importanza era il computo della data della pasqua da cui dipendevano molte feste previste dalla liturgia cristiana.

Il trattato definitivo sul problema della Pasqua, il De temporibus, fu scritto nel725 da Beda il Venerabile che riprende il lavoro di Dionigi il Piccolo.
Nella seconda metà del primo millennio le conoscenze astronomiche furono dunque assai primitive rispetto ai livelli raggiunti nell’antichità greco-romana.
Nel X secolo si svolsero i primi scambi culturali tra l’Iberia islamica e la cristianità europea. Ed è in questo contesto che si muove Gerbert d’Aurillac. Proprio verso la fine del X secolo l’astrolabio penetra nel mondo cristiano attraverso gli arabi e Gerberto potrebbe essere stato tra i primi sapienti europei che ne fecero uso. Il primo trattato in latino che illustri con precisione le diverse applicazioni dell’astrolabio si deve a Ermanno il Contratto (1013-1054).
Dai contatti con l’Islam cominciarono a riemergere le opere dell’antichità. Così nel XII ricompare in Europa l’Almagesto di Tolomeo, nel quale è esposto il sistema geocentrico; l’opera contiene anche un catalogo di 1022 stelle. Nelle nascenti università del XII secolo si cominciò presto a dibattere sulle critiche al sitema tolemaico formulate da Averroè nel suo commento al De Caelo. Infatti, secondo lo scienziato arabo, alcune soluzioni adottate nell’Almagesto per spiegare i movimenti celesti, come gli epicicli e gli eccentrici, contraddicevano i principi della fisica di Aristotele. Il riemergere di questi testi e il dibattito culturale nascente richiedettero la compilazione di nuovi testi introduttivi all’astronomia. John of Holywood scrisse allora tre opere destinate a un ampio pubblico: il Computus, l’Algoritmus e infine il De sphaera mundi che ebbe un immenso successo nei secoli successivi.
Nel XIII secolo le tavole alfonsine sostituiscono le più antiche tavole toledane ereditate dagli arabi.
Nel XIV ricompare la Geografia di Tolomeo dove sono esposte le regole per realizzare globi terrestri e carte terrestri piane. Il greco e i testi dell’antichità sono riscoperti. La rinascita delle città, la ripresa del commercio, l’invenzione della stampa agevolano la circolazione delle nuove idee. La cultura non fu più confinata nei monasteri ed i nuovi stati nazionali si fanno promotori del nuovo fervore culturale. Gli studi si moltiplicano. Copernico propone il suo sistema eleocentrico. Con il matematico gesuita Cristoforo Clavio (1538-1612) si raggiunge l’apice di un’astronomia legata ancora alla geometria. La precisione delle osservazioni di Tycho Brahe come quelle fatte da Keplero sull’orbita di Marte, condurrano quest’ultimo alla formulazione delle famosissime leggi di Keplero. E’ una svolta decisiva: l’astronomia non si fonda più sulla geometria ma ha il suo nuovo basamento nella dinamica, ovvero nella fisica.


Il carme figurato di Gerberto d’Aurillac di Flavio G. Nuvolone e il saluto del card Poupard