Il sogno di una vita più bella

L’aspirazione a una vita più bella ha avuto in ogni tempo davanti a sé tre vie verso la lontana meta. La prima conduce fuori dal mondo … La seconda era la via che conduce al miglioramento e al perfezionamento del mondo stesso… Il terzo sentiero conduce nel mondo dei sogni…” J. Huizinga, L’autunno del Medioevo

Durata della mostra: 5 maggio-13 giugno 2003



Una premessa di Paola Urbani

Utopia: sogno di una vita più bella o luogo e tempo immaginari? Luogo che non esiste o luogo perfetto? L’etimologia della parola è incerta, forse riconducibile alla negazione ‘ou’, forse alla particella ‘eu’, buono. Da una parte utopia come non luogo, e quindi luogo aperto all’immaginazione e alle sue stravaganze, dall’altra utopia come sogno di una società, di un luogo o di un tempo, migliori. Questo secondo significato, forse il meno ‘filologico’, si è imposto nel linguaggio comune e a questo facciamo per lo più riferimento in questa catalogo che vuole essere una panoramica  su quei luoghi perfetti che la fantasia o la razionalità degli umani hanno saputo immaginare. Utopia come sogno dunque, un sogno rivolto al passato come quello di straordinarie città perdute da ricostruire con la fantasia, o di un ritorno ad  una mitica età dell’oro considerata  paradigma di ogni possibile armonia tra l’uomo e il mondo. Oppure rivolto al futuro: immaginazione di mondi perfetti mai realizzati e forse irrealizzabili. La piccola mostra della Biblioteca Casanatense viene dopo che due mostre ben più ambiziose sono state realizzate: nella Bibliothèque Nationale di Parigi nel 2000 e nella Public Library di New York nel 2001 e, costruita quasi interamente sul materiale presente in biblioteca, vuole offrire una panoramica dei testi essenziali per la storia dell’utopia dal XVI al XIX secolo, da Platone al socialismo utopistico. Un tema che certo in questo lavoro  abbiamo appena sfiorato, in un intento serio ma anche e soprattutto giocoso e divulgativo, quale oggi si conviene, crediamo, parlando di utopia. Così abbiamo scelto di mostrare edizioni antiche, ma alternandole ad altre di più facile lettura, quando possibile anche in lingua italiana Ma, soprattutto, la mostra della Casanatense ha una caratteristica particolare: molti dei testi esposti sono stati illustrati dagli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Roma. Creare un ponte tra antico e moderno, attraverso la rivisitazione dei testi della Biblioteca Casanatense  da parte di giovani ‘artisti’, è stata l’idea guida del nostro lavoro. Un piccolo esempio di come si possa realizzare quella continuità nel cambiamento che possiamo considerare forse come l’utopia, realizzabile, del nostro millennio.

Il mito dell’età dell’oro

Sezione cura di Giuseppina Florio

Massimo di Tiro, scrittore greco del II sec. d.C. ha paragonato in una dissertazione (XXXVI) l’ideale di vita dei cinici a quello dell’età dell’oro: questi, infatti, dice, si sforzavano di vivere il più vicino possibile a quello che credevano essere lo stato di natura, vivendo frugalmente, ritenendo inutili le arti e le scienze, mangiando cibi crudi. La vita civilizzata è una prigione in cui gli uomini pagano dei piaceri frivoli con dei terribili mali. ‘Chi è abbastanza folle, si domanda, ‘ da preferire piaceri frivoli ed effimeri, beni insicuri, speranze incerte, successi equivoci ad un tipo di vita che è certamente uno stato di felicità?’. L’origine dell’umanità è avvolta nella leggenda. Si racconta che nel tempo in cui Crono regnava ancora in cielo, gli uomini vivevano liberi da affanni e al riparo dalle fatiche, ‘ tutti i beni appartenevano loro spontaneamente, la terra produceva naturalmente abbondante raccolto alimentata solo sa un clima dolcissimo, non conosceva le ferite inferte dal rastrello, i buoi erano liberi dal tormento del giogo: in questo mondo favoloso gli uomini godevano in armonia con l’universo. Il mito dell’età dell’oro è diventato nel corso dei secoli un luogo comune della morale che rappresenta gli esordi dell’umanità come il regno della Giustizia: con gli uomini viveva la Vergine, della stirpe di Astreo che cantava al popolo concorde le leggi regolatrici della società e che si allontanò da loro solo quando con l’età dell’argento e poi del bronzo gli uomini diventarono battaglieri e carnivori; da allora appare solo di notte nel cielo vicino a Boote dal grande splendore (Arato, Fen., 96-129). A Roma, dove Crono era identificato con Saturno, l’età dell’oro si pone al tempo in cui questo dio regnava sul Lazio: gli dei vivevano in intimità con i mortali e in una condizione di pace e ci si nutriva esclusivamente di legumi e di frutti. La credenza in un’età dell’oro e la speranza di un ritorno a quel paradiso originario è stata molto viva presso gli antichi Greci e Romani che si può pensare che le Saturnalia furono istituite volendo rappresentare la pace, l’abbondanza e l’uguaglianza di cui si godeva sotto il regno di Saturno e per rinnovare il ricordo di quei tempi felici. Scrittori e poeti ne hanno parlato sin dall’antichità presentandoci alcuni caratteri ricorrenti. Il mito delle quattro età contraddistinte dai nomi dei metalli si ritrova anche negli antichi astrologi che, persuasi dell’influenza dei corpi celesti sulle cose della terra, erano convinti che i vari aspetti che prendevano le costellazioni modificassero continuamente la vita sulla terra; il ripetersi di momenti comporta alterazioni nei costumi degli uomini, per cui si passa da uno stato di felicità ad uno stato di travaglio per il sopraggiungere di bisogni e passioni. Non potendo addentrarci in questo argomento che ci porterebbe, nel ripercorrere la storia del pensiero filosofico, fuori tema, ci basta dire che sin da Esiodo a Virgilio, ad Ovidio si parla non di un vero declino continuo, ma di un ritorno all’età dell’oro; procedendo di periodo in periodo, si passa dalla primavera della natura, l’età dell’oro, all’estate, all’autunno e all’inverno, e similmente all’età dell’argento, del rame e del ferro per dare luogo un’altra volta all’età dell’oro e così sino all’infinito. Su questa ‘favola’ Platone fondò la sua idea del mondo che, creato perfetto, col tempo si altera e si consuma e si distruggerebbe se il suo stesso artefice non lo restaurasse di volta in volta. Col passare dei secoli si è sempre fatto riferimento, anche indirettamente a quel favoloso periodo della preistoria in cui l’uomo conduceva una vita innocente e felice, in comunione con la natura. Nella seconda metà del XVIII secolo anche Rousseau nel suo Discours sur les sciences et les arts dice che la civiltà non è che decadenza, ‘la natura ha fatto l’uomo felice e buono, ma la società ‘ lo rende infelice’. Essendo impossibile fare a ritroso il cammino della civiltà, bisogna riavvicinarsi alla natura, restaurare nell’uomo incivilito quei beni che furono l’appannaggio dell’uomo primitivo, la bontà, la libertà, la felicità. In una dissertazione preparata per un concorso dell’Accademia di Digione sulla questione ‘se il progresso delle scienze e delle arti ha contribuito a corrompere o a emendare i costumi’, Rousseau disse che non poteva accusare la scienza, quanto difendere la virtù. Non si può disconoscere che questa sia una verità eterna e sempre attuale: è compito dell’uomo non distruggere lo stato di felicità, non alterare quell’equilibrio tra natura e genere umano, necessario alla sua sopravvivenza, restaurarlo quando gli eccessi potrebbero distruggere non solo la natura, ma l’uomo stesso.

Le utopie della ragione

sezione a cura di Paola Urbani

Immaginare una organizzazione sociale razionale, che sia tale da garantire il massimo della felicità per tutti suoi membri: è questo il sogno di quelli che potremmo chiamare gli utopisti della ragione.
Essi inventano delle città sulla base dei propri ideali filosofici o morali, dei mondi perfetti in cui nulla venga lasciato al caso, e che siano almeno in linea di principio realizzabili. Un connubio tra immaginazione e razionalità da cui potremmo aspettarci molto. E invece non appena leggiamo La Repubblica, o La Città del Sole, o i Mondi del Doni, ci accorgiamo che solo la ragione ha dettato legge mentre l’immaginazione è stata penalizzata in questo incontro: la sua trama ariosa e leggera è stata imbrigliata da rigide uniformi catene. E queste città perfette infatti si assomigliano tutte
collegate le une alle altre da alcune idee generali, e da un presupposto indiscutibile: il primato del generale sul particolare, della società sull’ individuo. Gli individui sono solo parti di un organismo, strumenti per il suo fine comune.
E là dove cercassero di ribellarsi e di rivendicare la loro autonomia, devono essere sacrificati, come un membro infetto che potrebbe contaminare il corpo intero. Poiché in queste società l’etica ha il primato sulla morale individuale, e il sacrificio del privato a vantaggio del pubblico è doveroso. L’ ordine come armonia sociale, come principio di autorità, come ordito, tessuto di regole, è la parola chiave per garantirne la sopravvivenza.
Per questo spesso è difficile entrare e uscire dai loro confini: gli stranieri potrebbero turbarne l’armonia introducendo usanze nuove e pericolose, gli abitanti potrebbero venire a contatto con la diversità. E’ importante invece che tutto in queste società si assomigli, che siano simili le città all’interno dello stato e le case all’interno delle città, simili i vestiti degli abitanti, simile il cibo servito nelle sale comuni, simile il numero dei figli e il tipo di educazione che devono ricevere.
Certo: in alcuni particolari anche queste società divergono: nel decidere se mettere in comune o meno le donne, se ammettere o meno l’adulterio, se obbligare al matrimonio e a quale età, se permettere il divorzio, quali materie privilegiare nell’insegnamento. Nella Nuova Atlantide di Bacone la scienza è sovrana, si sperimenta e si studia continuamente, mentre nella Parigi di Mercier non troveremo più molti libri poiché sono stati dati alle fiamme, se vogliamo invece lavorare ad Olbia saremo obbligati a conoscere l’economia politica a menadito. E se viviamo nel Falansterio dimentichiamo la passione per le lingue straniere: studio del tutto inutile e faticosissimo che va abolito secondo Fourier. Ma in tutte chi non fosse d’accordo, chi volesse parlare in favore della proprietà privata, o passare da una città all’altra senza permesso, magari dedicarsi a studi proibiti, avrà una punizione terribile. Potrà essere rinchiuso in luoghi inaccessibili lontani dalla pietà umana, nutrito solo da schiavi nella società di Platone, ridotto in schiavitù e in catene in Utopia, chiuso per tutta la vita in una caverna costruita dentro il cimitero nella città di Morelly.
Finché nell’ultimo testo di questa breve rassegna, L’anno 3000, si avvera finalmente la perfetta realizzazione dell’ utopia: è stato inventato lo psicoscopio che permette di leggere i pensieri in modo da bandire dal mondo la menzogna. Chi potrà sottrarsi ora al controllo della società perfetta?
Sono i sogni della ragione, questa volta, ad aver generato mostri, ad aver trasformato l’immaginazione in una prigione. Cosa resta allora a noi, orfani dell’utopia?
Dopo aver visitato le inospitali contrade dell’isola a ferro di cavallo, discesi i sette gironi della Città del Sole, scappati da Olbia e dai suoi templi inneggianti alle virtù, e da Andropoli dove non siamo liberi neppure nei pensieri, ci restano forse due scelte soltanto.
Possiamo visitare l’ isola di Agathotopia, di James Edward Meade, non uno stato perfetto, egli ci dice, ma un ‘Buon Posto in cui Vivere’: il modello pragmatico di un socialismo liberale in cui competività e collaborazione sono alleati.
O possiamo credere che lo stato minimo di Robert Nozick, società costruita intorno all’individuo e alle sue libere scelte di vita, sia l’unico ‘moralmente giustificato’, il migliore dei mondi possibili, oltre i confini dell’utopia.

Le utopie della fantasia

sezione a cura di Paola Urbani

In questa sezione sono raccolti testi eterogenei, parlano di luoghi inesistenti e senza futuro, sono utopie irrealizzabili concepite sotto il segno dell’ immaginazione e della libertà. ‘Diffidate di chi vuol mettere ordine – scriveva Diderot – Ordinare è sempre volersi rendere padrone degli altri opprimendoli’. Facendo proprie le sue parole, queste favole, sogni, pamphlets, riflessioni sulla società reale o su una società immaginaria, non si prendono sul serio, non pretendono di sostituire alla società reale una società perfetta, ma solo, al massimo, di migliorarla, sono travestimenti, satire, giochi.
Troviamo strade lastricate di diamanti nell’ Eldorado di Voltaire, un albero di oro e gemme che prende vita nelle regioni del sole di Cyrano, visitiamo un’abbazia in cui l’unica regola è la mancanza di ogni regola, un’isola in cui sono gli schiavi a comandare, un’altra in cui comandano le donne, in un’altra ancora sono al potere i cavalli, incontriamo come nell’isola di Ciclofilo, abitanti con il corpo che ha assunto la forma bizzarra delle loro vocazioni.
Questi utopisti spesso utilizzano la fantasia anche per avere la possibilità di dire liberamente ciò che pensano, per manifestare un pensiero antidogmatico, come Voltaire che mette al bando i preti dall’Eldorado, o Cirano che contesta l’arroganza dell’uomo che solo tra tutte le creature si ritiene creato a immagine di Dio, o anticattolico come Hall che nella sua Moronia Felice adombra la Chiesa Cattolica pomposa dispensatrice di illusioni, o come Fontenelle che descrive una fantasiosa guerra in Borneo, per avere il pretesto di denunciarne l’ipocrisia.
Altri, ancora più numerosi, sognano il ritorno a uno stato di natura libero e innocente che la civiltà avrebbero corrotto per sempre. Apparso nel 1771, il Voyage autour du monde di Bougainville, resoconto di un viaggio vero in cui l’autore descriveva i costumi liberi dei tahitiani, aveva suscitato profonda impressione, e ritorna ne L’Histoire des Troglodites di Montesquieu e nel Supplement a Bougainville di Diderot il tema di una vita semplice e gioiosa da vivere in mezzo a una natura amica, che, nella Colonia Felice di Dossi, sembra capace di redimere gli uomini da ogni colpa.
Eppure, come la libertà dei Trogloditi non appena essi crescono di numero, deve cedere il passo all’ordine e alla creazione di leggi, un simile fondo di amarezza percorre queste utopie e amputa loro le ali del sogno mentre lo slancio iniziale si ripiega e muore in una amara, ma anche in fondo consolatoria, accettazione dei limiti e contraddizioni della società del tempo. Spesso infatti questi racconti si concludono con una riconferma dell’ordine sociale vigente, che sembra il solo ad essere consentito dalla natura umana, come se, simili all’Albatro di Baudelaire, gli utopisti non riuscissero a spiccare il volo. E anche quando si avventurano a immaginare un mondo davvero diverso, come quello comandato dagli schiavi o dalle donne nelle due pièces di Marivaux, rientrano poi rapidamente nei confini prefissati: nessuno può cambiare il proprio vestito con quello di un altro, né il proprio ruolo nella società.
La Nuova Colonia di Pirandello, nel suo catastofico finale, sembra ricapitolare l’impossibilità del cambiamento: l’isola su cui per rifarsi una vita migliore si sono rifugiati i contrabbandieri sprofonda in mezzo all’oceano dopo essere divenuta un altro inferno, e solo una donna, grazie al suo istinto materno, si salverà. Nella riconferma dei valori tradizionali, e dei pericoli dell’ immaginazione che già Teresa d’Avila chiamava la pazza di casa, il sogno di una vita più bella si scontra con la durezza del reale e l’utopia diviene luogo che non esiste, sogno irrealizzabile.

Le meraviglie perdute

Ricostruzioni di antiche città tra archeologia e sogno
sezione a cura di Renata Procacci

Pochi argomenti hanno suscitato un interesse così profondo come le grandi civiltà passate e come le splendide metropoli che ne furono i centri. Le cause della loro distruzione possono essere state molteplici: catastrofi naturali, guerre, invasioni nemiche o una lenta decadenza dovuta al mutare degli equilibri politici ed economici nella loro area geografica. Di alcuni grandi centri si conservano le rovine; in altri casi è necessario affidarsi prevalentemente alla fantasia. Ma il fascino di quello che una volta era superbo e grandioso, ed è irrimediabilmente perduto, attrae gli studiosi di antichità (etnologi, storici dell’arte, geografi, archeologi) e anche il cosiddetto ‘grande pubblico’. Tebe d’Egitto, Babilonia, Cnosso, Gerusalemme, più tardi le capitali degli imperi azteco e inca ‘ per citare solo alcuni esempi – sono state oggetto di innumerevoli tentativi di ricostruzione ideale; se ne è parlato in moltissime opere di carattere ‘tecnico’ ma in un numero anche maggiore di libri, documentari e film dagli intenti divulgativi. Le opere di questo secondo tipo sono infinitamente più conosciute e suscitano a tutt’oggi un vivace interesse. La tentazione di evadere di tanto in tanto nel passato può sembrare tipica di un’epoca disincantata come la nostra; in realtà ne troviamo tracce già in testi molto antichi, quali Omero e l’Antico Testamento, dove il ricordo di Troia o di Cnosso, di Sodoma o di Babilonia, appare già avvolto dai colori del mito. E numerose leggende che si tramandano, in varie parti del mondo, intorno alle ‘città scomparse’, risalgono ad epoche remote.
In questa sezione non ci soffermiamo sulle scoperte archeologiche di personalità famose quali Howard Carter, Arthur Evans etc. In accordo con l’argomento generale della mostra, cerchiamo di mettere in risalto soprattutto l’elemento di sogno e di nostalgia che spesso si accompagna alla rievocazione di antichi mondi. Gli studiosi dei secoli passati erano privi degli odierni mezzi di scavo e di ricerca; il più delle volte erano impossibilitati a recarsi personalmente sui luoghi; ma trascorsero anni consultando gli autori greci e latini, l’Antico e il Nuovo Testamento, le relazioni dimenticate di antichi viaggiatori, le lettere o i diari dei conquistadores, allo scopo di recuperare idealmente e di far rivivere le ‘meraviglie’ perdute.

Suggerimenti di lettura: testi

Tommaso Campanella La Città del sole

‘[…] Gran maestro: Uomo generoso, spiegami la forma di governo di questa gente, io con impazienza ti aspettavo su questo punto. Ammiraglio: Sommo reggitore di questa città è un Sacerdote nel linguaggio degli abitanti chiamato Hoh. Noi lo chiameremmo Metafisico. Questi gode di una autorità assoluta, a lui è sottoposto il temporale e lo spirituale, e dopo il suo giudizio deve cessare ogni controversia. Egli viene incessantemente assistito da altri tre capi detti Pon, Sir e Mor, nomi che presso di noi equivalgono a Potenza, Sapienza ed Amore. La Potenza ha il governo di quanto spetta alla pace e alla guerra, nonché a tutta l’arte militare. Questo triumviro non riconosce superiori nelle cose militari, eccetto Hoh. Egli presiede ai magistrati militari, all’esercito; a lui appartiene sorvegliare le munizioni, le fortificazioni, le costruzioni, quanto insomma concerne simile genere di cose. Alla Sapienza incombe la direzione delle arti liberali, meccaniche e di tutte le scienze, nonché quella dei rispettivi magistrati d’esse, dei dottori e delle scuole d’istruzione. A lui quindi obbediscono tanti magistrati quante sono le scienze. C’è un magistrato che si chiama Astrologo, altri Cosmografo, Aritmetico, Geometra, Istoriografo, Poeta, Logico, Retore, Grammatico, Fisiologo, Politico, Morale, e per questi esiste un unico libro detto Sapere, nel quale con meravigliosa concisione e chiarezza stanno scritte tutte le scienze. Questo viene da essi letto al popolo secondo il metodo dei Pitagorici La Sapienza poi con ordine ammirevole fece adornare tutte le mura esterne ed interne, superiori ed inferiori, di pregiatissimi dipinti rappresentanti tutte le scienze. [‘] Il terzo dei triumviri è l’Amore, e compito principale per lui è sovrintendere a quanto riguarda la generazione. Suo scopo principale è quindi che l’unione amorosa accada tra individui talmente organizzati, che possano produrre un’ eccellente prole, e si fanno beffe di noi che, affaticandoci per il miglioramento delle razze dei cani e dei cavalli, totalmente trascuriamo quella degli uomini. Al suo governo è sottoposta l’educazione dei fanciulli, l’arte della farmacia come pure la semina e la raccolta delle biade e dei frutti, l’agricoltura, la pastorizia, l’ apparecchio delle mense e dei cibi. Infine l’Amore regola tutto quanto ha rapporto col vitto, coi vestiti e con la generazione nonché i molti maestri e maestre addetti a ciascuno di questi ministeri. Questi tre trattano le anzidette cose unitamente al Metafisico, senza del quale non si fa nulla; e così la repubblica viene governata da quattro, ma generalmente dove propende il volere del Metafisico acconsente pure quello degli altri. Gran maestro: Ma dimmi, amico, i magistrati, gli uffizi, le cariche, l’educazione, tutto il modo di vivere è proprio d’ una vera repubblica, ovvero d’ una monarchia o d’ una aristocrazia? Ammiraglio: Questo popolo si rifugiò qui venendo dall’India, abbandonata da lui per scampare alle inumanità dei maghi, dei ladroni e dei tiranni che tormentavano quel paese, e tutti d’accordo determinarono d’incominciare una vita filosofica ponendo ogni cosa in comune; e quantunque nel loro paese nativo non sia in uso la comunità delle donne, essi pure l’adottarono unicamente per il principio stabilito che tutto doveva essere comune, e che solo la decisione del magistrato doveva regolarne l’equa distribuzione. Le scienze quindi, le dignità e i piaceri sono comuni in modo che alcuno non può appropriarsene la parte che spetta agli altri. Essi dicono che ogni sorta di proprietà trae origine e forza dal separato ed individuale possesso di case, figli e mogli. Questo poi produce l’amor proprio, e ciascuno ama arricchire, ed ingrandire l’erede: e quindi, se potente e temuto, defrauda la cosa pubblica; se debole, di nascita oscura e privo di ricchezze, diviene avaro, intrigante ed ipocrita. Al contrario, perduto l’amore proprio, rimane sempre l’amore della comunità. […]

Tommaso Moro Utopia

Delle città e specialmente di Amauroto.
“[…] Chi ha visto una di quelle città le ha viste tutte, tanto sono simili l’una all’altra, dove il luogo lo consenta. Ne dipingerò dunque una; e benché non importi descrivere più questa che quella, nondimeno ragionerò di Amauroto come più degna. La quale, per avervi il senato, è onorata da tutte le altre; ed io ho di quella maggior cognizione, perché vi sono stato per circa cinque anni. Amauroto è situata in una costa di monte, ed è quasi quadrata perché la sua larghezza comincia poco di sotto la cima del colle, e per duemila passi si stende lungo il fiume Anidro, lungo la riva del quale alquanto più si allarga. Anidro sorge da una piccola fonte ottanta miglia sopra Amauroto, ma accresciuto dal concorso di altri fiumi, passa davanti Amauroto largo cinquecento passi e di qui poi slargandosi a seicento, si immette nell’Oceano. In questo spazio di alquante miglia tra il mare e la città, l’acqua va e torna con molta fretta ogni sei ore. Il mare, quando v’entra, occupa il letto del fiume per trenta miglia, e ricaccia indietro le sue acque: e alle volte le corrompe con la salsedine. Ma tornando poi indietro, il fiume abitualmente corre con dolci acque irrigando la città: ed un ponte non di travi o legno, ma di pietra egregiamente lavorata, serve per passarlo a quella parte che è dal mare più lontana, affinché le navi possano trascorrere davanti a quel luogo della città senza pericolo. Hanno ancora un altro fiume, non grande, ma tranquillo e piacevole, il quale sorgendo dal monte su cui la città è fabbricata, passa in mezzo a quella e si immette nell’Anidro. Gli Amaurotani hanno trasportato dentro la città la fonte di questo fiume, che non era molto lontana, e l’hanno fortificata, in modo che i nemici non potessero cambiare il corso dell’acqua o contaminarla. Indi con cannoni di pietra cotta (canaloni di cotto) fanno arrivare l’acqua alle parti più in basso e in quei luoghi dove non si può farla arrivare, fabbricano cisterne nelle quali si raccoglie la pioggia e i popoli ne usufruiscono con la stessa comodità. Il muro largo e alto cinge la città con torri e pivellini: la fossa secca ma larga e profonda e con spine e siepi da tre parti circonda le mura, e dalla quarta il fiume serve da fossa. Le piazze sono fatte acconciamente e per condurvi le cose necessarie e perché siano sicure dai venti: gli edifici non vili e tirati al dritto, quanto è lungo ogni borgo, con le case dirimpetto una all’altra: le fronti dei borghi hanno per loro una via larga venti piedi. Dietro le case, quanto è largo il borgo, c’è l’orto, largo e chiuso dalle muraglie di dietro dei borghi: ogni casa ha la porta di dietro e davano che si apre agevolmente in due parti e si chiude da sé: ognuno vi può entrare. Tutti hanno ogni loro cosa in comune, ogni dieci anni cambiano anche la casa. Tengono in gran considerazione gli orti, nei quali piantano viti, frutti, erbe, fiori in grande ordine e vaghezza. Gareggiano i borghi uno con l’altro per avere orti più belli e nessuna cosa è loro più utile e gradita di questi, di cui sembra che avesse più cura il suo autore che di qualunque altra cosa […]”.

Morelly Codice della natura

Modello di legislazione conforme alle intenzioni della natura
” […] Io do questo schizzo di leggi in forma di appendice e come parte accessoria poiché purtroppo è ben vero che sarebbe praticamente impossibile, ai giorni nostri, formare una simile repubblica. Ogni lettore sensato si farà il suo giudizio su questo testo, che non ha bisogno di lunghi commenti, e comprenderà da quanti tipi di miserie queste leggi libererebbero gli uomini. Ho appena provato che sarebbe stato facile ai primi legislatori far sì che i popoli non ne avessero conosciute altre; se le mie prove sono complete, ho raggiunto il mio obiettivo. Io non ho le temerarietà di pretendere di riformare il genere umano; ma abbastanza coraggio per dire la verità, senza preoccuparmi degli schiamazzi di coloro che la temono, perché essi hanno interesse a ingannare la nostra specie, o a lasciarla negli errori di cui sono essi stessi le vittime. Leggi fondamentali e sacre Che taglieranno alla radice i vizi e tutti i mali di una società I. Niente nella società apparterrà singolarmente o in proprietà a qualcuno, tranne le cose di cui farà un uso abituale, sia per i suoi bisogni, i suoi piaceri o il suo lavoro quotidiano. II. Ogni cittadino sarà uomo pubblico, sostentato, intrattenuto e occupato a spese pubbliche III. Ogni cittadino contribuirà da parte sua all’utilità pubblica secondo le sue forze, i suoi talenti e la sua età; è su ciò che saranno regolati i suoi doveri, conformemente alle leggi distributive […]”.

Jean-Baptiste Say Olbia

Il linguaggio dei monumenti
“[…] Il linguaggio dei monumenti si fa capire da tutti gli uomini, perché si indirizza al cuore e all’immaginazione. I monumenti degli Olbiensi raramente ricordavano dei doveri puramente politici, poiché i doveri pubblici sono astratti, fondati sul ragionamento più che sul sentimento e infine perché la loro osservazione segue necessariamente l’osservazione dei doveri privati e sociali, che simili a quei trefoli di cui si compongono i più grossi cavi, formano nel loro insieme il legame più solido del corpo politico. Gli Olbiensi non avevano che un Pantheon dei grandi uomini e parecchi Pantheon per le virtù. Essi non si limitavano ad alzare un tempio all’amicizia e a porre al di sopra del suo portale una scritta di legno con queste parole: All’amicizia. Ci si entrava e tutto ricordava all’anima le dolcezze che procura questo sentimento delizioso e i doveri che esso impone. Gli occhi si arrestavano sulle statue di Oreste e di Pilade, di Henri e di Sully, di Montaigne e di Laboétie. Erano incisi sui loro piedistalli i principali tratti della loro vita o le loro parole memorabili. Tra le iscrizioni di cui erano ornate le mura del tempio ci si trovavano queste Ama per essere amato Che cosa dolce è un vero amico! L’amicizia non è fatta per i cuori corrotti L’amicizia di un grand’uomo è un favore degli dei L’avversità è il crogiolo in cui mettono alla prova gli amici Lascia vedere al tuo amico il tuo cuore fino alle sue più riposte pieghe e sii sicuro che bisogna togliervi i sentimenti che temi di mostrargli L’amico di cui abbiamo bisogno non è quello che ci loda Bisogna aspettarsi tutto fuorché l’ingratitudine di un amico Cento altri templi si alzavano per celebrare altre virtù. E non era soltanto all’interno delle città che i monumenti parlavano al popolo, era anche negli altri luoghi frequentati, in mezzo alle promenades, lungo le grandi strade. La pietra, il bronzo, raccontavano dappertutto azioni lodevoli, oppure proclamano utili precetti. Le statue, le tombe, insegnavano al popolo ciò che doveva imitare, ciò che doveva eccitare il suo rincrescimento, ciò che meritava i suoi omaggi. I precetti erano sempre scelti tra i più utili e i più usuali. Abbiamo visto in cosa delle giuste nozioni di economia politica fossero favorevoli alla morale: ebbene! Nozioni di questo genere si mescolavano a tutte le altre: l’agricoltore, il negoziante, il manifatturiere, passeggiando, viaggiando, si chiarivano le idee sui loro veri interessi,; essi incontravano, per esempio, le massime seguenti il cui ritornello semplice eppure vivo si ricorda facilmente e si ripete allo stesso modo: Aiutati che il ciel t’aiuta. Le follie del mattino si pagano care la sera. Se amate la vita, non perdete tempo poiché la vita ne è fatta. La pigrizia va così lentamente che la povertà la raggiunge in un colpo solo. Avete una cosa da fare domani? Fatela oggi. Costa di più nutrire un vizio che allevare due bambini. Non impiegate il vostri denaro a comprare un pentimento Se non volete ascoltare la ragione, non mancherà lei di farsi sentire. Si incontravano inoltre, secondo i luoghi, dei precetti applicabili alle diverse professioni e persino alle diverse occupazioni sociali: ma è sufficiente, credo, che io abbia indicato quelli che abbiamo appena letto. I padri di famiglia seguirono a poco a poco l’esempio offerto dall’autorità pubblica; poiché l’esempio che, all’inizio, si imita così poco, è quel che più infallibilmente è imitato nel tempo. Si possono leggere nelle loro case massime applicabili all’ordine interno delle famiglie, e i figli nutriti da questa massime, che l’esperienza confermava al posto loro, ne trassero la regola del loro comportamento, e la trasmisero ai loro figli. La gente fu felice perché divenne saggia: uomini e nazione non possono esserlo diversamente.

Jean Baptiste Godin Il vero socialismo in azione

L’abitazione, la donna e il bambino
“[…] L’abitazione, nella forma ancora rudimentale che ha oggi, mantiene forzatamente la donna in uno stato di inferiorità generale riguardo all’uomo; questo è portato considerare la sposa come guardiana dell’alloggio e della famiglia: da qui al ruolo di serva del padrone non c’è che una debole distanza da percorrere. E’ più o meno questo che consacrano i fatti e i costumi. Se la donna non ha ancora alcun diritto politico è che, secondo il parere della parte maschile della società,questo l’allontanerebbe dai doveri del menage. Diciamo subito che per coloro che non possono concepire del progresso serio del mondo, questa maniera di vedere si giustifica con i fatti La donna mette al mondo i figli, sembra naturale che essa li allevi. La cura dei bambini la trattiene al focolare domestico; sembra dunque naturale che essa sia incaricata delle cure del marito. La natura protesta spesso, è vero, contro questa interpretazione: essa fa parecchie madri che sono incapaci di riempire bene tutti i doveri della maternità. La famiglia una volta costituita ha bisogno di aiuti esterni, da cui necessità di ricorre spesso ad aiuti per le cure dovute ai bambini. Questo semplice fatto sarebbe sufficiente a dimostrare che le leggi della vita non impongono in modo assoluto alla madre di allevare il bambino. E’ così al fine di stabilire nella società dei legami di affetto e solidarietà e fraternità tra i suoi membri. Poiché la Vita ordina ogni cosa nell’esistenza umana in modo di comportare servizi reciprochi. Se la famiglia fosse perfetta, e non avesse alcun bisogno del soccorso altrui, sarebbe portata a chiudersi in un freddo egoismo: l’assistenza degli altri essendo utile per l’educazione e l’istruzione dei bambini, è una causa di moltiplicazione di rapporti fraterni […]”.

Anton Francesco Doni Il mondo savio e pazzo

Dialogo tra Savio e Pazzo a proposito dell’amore, del lavoro e del modo di nutrirsi
SAVIO: Avere una, due, tre, cento, e mille femmine al comando della S.V. non vi farà mai entrare in bizzarria, perché si perde l’amore, tanto più che l’uomo si è assuefatto a quella legge, a quell’ordinariaccio senza amore. PAZZO: Così si deve fare, lasciare la cosa a beneficio di natura. Ma se uno si fosse innamorato? SAVIO: Non sai tu che l’amore consiste nella privazione della cosa amata, in quella rarità, in quel difficile, tosto passano simili appetiti, e quell’abito del non avere a patire scancella subito simil partite. PAZZO: La non mi piace codesta ordinazione, a esser privo d’un ardente desiderio amoroso, e d’un infervorato desio. SAVIO: Se tu considerassi quanti mali si cancellano, non diresti così; il Vituperio non ci sarebbe; l’Onore non sarebbe sfregiato; i Parentadi non sarebbero vituperati, non sarebbero ammazzate le mogli né uccisi i mariti, non accadrebbero alla giornata questioni, le femmine non sarebbero cagioni d’infiniti mali, sarebbero spenti i tumulti delle nozze, le nascoste fraudi dei maritozzi, le ruffianerie, le liti delle recuse; gli assassinamenti delle doti e le trappole degli inganni degli scelerati; infino alle donne, per questo stupro hanno ammazzato i lor mariti; delle quali ce ne sono antichi e moderni esempi, e per una femmina, per un altro amore si sono spente le famiglie onorate, e le case nobilissime. PAZZO: L’ha ben questa tua ragione un certo che del verisimile, ma chi non volesse lavorare, come andrebbe ella. SAVIO: Chi fosse poltrone. E gli ne fossi stato sopportato una due e tre, s’ordinava che non mangiasse se non fatto il suo lavoro. PAZZO: Chi non lavora non mangia dunque. SAVIO: Domine ita, e tanto aveva da mangiare l’uno come l’altro, come t’ho detto. PAZZO: Un goloso, vi sarebbe stato male. SAVIO: Che golosità volevi tu che gli venisse, o appetito se non aveva gustato altro che di sei o dieci sorte vivande al più più. PAZZO: E’ ben fatto, bene: e piacemi questo ordine d’avere spento quel vituperio delle ubriachezze’ di quello stare a crapulare cinque o sei ore da tavola. Sì che la sta bene questa cosa. So che le composte, le zuccherate, le favorate, le zanzaverate Non davano troppo disturbo alla voracità della gola nostra insaziabile. […]

Jonathan Swift I viaggi di Gulliver

Virtù degli Houyhnhnm
“[…] I nobili Houyhnhnm, dotati per natura di una generale inclinazione a ogni virtù, e privi di ogni concetto o idea di un male che possa allignare in un essere razionale, hanno come massima fondamentale di coltivare la ragione e di farsi da questa interamente governare. Né la ragione è fra loro, come fra noi, qualcosa di problematico con cui l’uomo può dimostrare in modo egualmente plausibile argomenti opposti: essa penetra e immediatamente convince, come deve avvenire quando non è turbata, oscurata o scolorita da passioni o interessi. Ricordo che solo con gran difficoltà riuscii a far capire al mio padrone il significato della parola opinione e come un qualsiasi argomento possa essere controverso: perché la ragione ci insegna ad affermare o negare solo ciò di cui siamo certi e, al di là delle nostre conoscenze, non possiamo fare né l’una né l’altra cosa. Controversie, polemiche, dispute, puntigli su argomenti falsi o dubbi sono dunque mali sconosciuti tra gli Houyhnhnm. In egual modo, quando solevo esporre al mio padrone i nostri vari sistemi di filosofia naturale, egli rideva che una creatura con pretese di ragionevolezza potesse stabilire il proprio valore in base alla conoscenza delle opinioni altrui e su argomenti in cui tale conoscenza, anche se fosse sicura, non servirebbe a nulla.[‘] Amicizia e benevolenza sono le due principali virtù degli Houyhnhnm, e non già limitate a questo o quell’individuo, ma universalmente rivolte all’intera razza. Uno straniero che giunga dalle più remote regioni è trattato come il più intimo vicino e dovunque egli vada, si sente come a casa sua. Rispettano col massimo rigore il decoro e la civiltà, ma ignorano affatto le cerimonie; non fanno smodate tenerezze ai loro puledri e puledrine, ma li educano attenendosi in tutto ai dettami della ragione. E notai che il mio padrone mostrava ai rampolli del vicino lo stesso affetto che ai propri. Sostengono che la Natura insegna loro ad amar l’intera specie e che la ragione soltanto li induce a distinguer le persone a seconda della loro eccellenza nella virtù. Quando le matrone Houyhnhnm hanno partorito un maschio e una femmina, non si accoppiano più col loro marito a meno che non perdano, per qualche disgrazia, uno dei loro rampolli cosa che avviene assai di rado: ma in tal caso tornano ad accoppiarsi. Se la stessa sventura avviene a qualcuno la cui moglie non dia più in età da partorire, un’alta coppia gli cede uno dei propri figli puledri e poi torna a congiungersi finché la madre non sia nuovamente incinta. Queste precauzioni sono necessarie affinché la regione non si popoli in modo soverchio; ma le razze inferiori degli Houyhnhnm, destinate alla servitù, non hanno, su questo punti, limiti così rigoroso; si concede loro di generare tre maschi e tre femmine, che diverranno domestici nella famiglie nobili […]”.

Francesco Bacone La Nuova Atlantide

Appare la Nuova Atlantide
“[…] Dopo aver soggiornato per un anno in Perù, facemmo vela per la Cina e il Giappone, avendo con noi viveri per un anno. Venti dell’Est abbastanza deboli favorirono la nostra navigazione, durante cinque mesi e più, ma poi dei venti contrari soffiarono così accanitamente dalla parte dell’Ovest che la lentezza con cui avanzavamo ci fece pensare diverse volte che avremmo fatto meglio a tornare da dove eravamo venuti. Nel frattempo altri venti assai violenti si erano alzati dalla parte del sud e dell’est, e fummo trascinati verso Settentrione, malgrado la nostra resistenza; e i nostri viveri amministrati fino ad allora con molta economia, ci vennero a mancare del tutto. Ridotti in uno stato così deplorevole in mezzo al più vasto e meno frequentato dei mari dell’Universo, ci credevano perduti e non aspettavamo altro che la morte. Non smettevamo tuttavia di alzare i nostri cuori e le nostre preghiere verso colui che abitando nei Cieli fa rispendere le sue meraviglie nei mari più profondi, per ottenere dalla sua misericordia che come dopo aver riunito le acque ai primordi , aveva ordinato alla Massa Arida? di apparire, si degnasse di scoprire qualche terra dove noi potessimo salvarci. Il giorno seguente verso la sera vedemmo al Nord una specie di nuvola nera e spessa e ci lusingammodi non essere lontani dalla terra non dubitando affatto che il mare Australenel quale ci trovavamo, fino ad allora sconosciuto, potesse racchiuderein sé isole e continenti di cui non si era ancora mai sentito parlare. Così vogammo, durante tutta la notte, verso il punto dove credevamo di poter attraccare. All’inizio del giorno i nostri propri occhi ci informarono che non ci eravamo sbagliati nella nostra congettura e che ciò che avevamo scorto era in realtà una terra abbastanza bassa e coperta di foreste, cosa che da lontano ce l’aveva fatta sembrare così oscura […]”.

Cyrano di Bergerac La monarchia degli uccelli

Arringa fatta in Parlamento degli uccelli, a Camere riunite, contro un animale accusato di essere uomo
“[…] Il nocciolo della questione sta nel sapere se questo animale è un uomo, e poi, e nel caso egli lo sia, se per questo merita la morte. Per quel che mi riguarda, non faccio alcuna difficoltà a credere che egli lo sia: innanzitutto a causa del sentimento di orrore da cui tutti noi ci siamo sentiti assali alla sua vista senza poterne dire la ragione; per secondo perché egli ride come un folle; per terzo perché piange come uno stupido; quarto, perché si soffia il naso come un villano, quinto, egli è piumato come un scabbioso, per sesto ha sempre una quantità di piccoli grani quadrati in bocca, che non ha il coraggio di sputare né di ingoiare, settimo motivo e per concludere, egli alza in alto tutte le mattine i suoi occhi, il suo naso e il suo largo becco, incolla le sue mani aperte, le punta al cielo, palma contro palma e non ne fa che una cosa sola come se si annoiasse di averne due libere, si taglia a metà le gambe, in modo tale che cade sulle ginocchia, poi grazie a delle parole magiche che bisbiglia, ho notato che le sue gambe si riattaccano un’altra volta e lui si rialza contento come prima. Ora voi sapete, signori, che di tutti gli animali c’è solo l’uomo che abbia l’anima così nera per dedicarsi alla magia e di conseguenza, questo è un uomo. Bisogna adesso esaminare se, per essere uomo, egli merita la morte. Io penso, signori, che mai nessuno abbia messo in dubbio che tutte le creature sono prodotte dalla nostra comune madre, per vivere in società. Ora se io dimostro che l’uomo sembra non essere nato che per romperla, non proverei forse che andando contro il fine della creazione, egli merita che la natura si penta della sua opera? La prima e più fondamentale legge per il mantenimento di una repubblica è l’uguaglianza; ma l’uomo non saprebbe farla durare in eterno: egli si scaglia su di noi per mangiarci; egli fa intendere che noi non siamo fatti per lui; prende per argomento della sua pretesa superiorità la barbarie con la quale ci massacra e la scarsa resistenza che trova a vincere la nostra debolezza e non vuole tuttavia ammetterlo con i suoi maestri, le aquile e i condor, dai quali i più robusti di loro sono superati. Ma perché questa grandezza e disposizione delle membra dovrebbe marcare una diversità di specie dal momento che anche tra loro si trovano dei nani e dei giganti? Ancora, è un diritto immaginario questa sovranità di cui si vantano: sono, al contrario, così inclini alla servitù che per paura di non poter servire, vendono gli uni agli altri la loro libertà. E’ così che i giovani sono schiavi dei vecchi, i poveri dei ricchi, i contadini dei gentiluomini, i principi dei monarchi e i monarchi stessi delle leggi che hanno stabilite. Ma malgrado questo, questi poveri servi hanno così paura di mancare di padroni, che, come se temessero che da qualche luogo inatteso provenisse loro la libertà, si forgiano dèi da tutte le parti: nell’acqua, nell’aria, nel fuoco, sotto la terra; piuttosto che non averne se ne farebbero di legno e credo anche che essi si solleticano di false speranze di immortalità meno per l’orrore del non essere che per la paura di non avere più chi li comandi dopo la morte. Ecco il bell’effetto di questa fantastica monarchia e di questo comando così naturale dell’uomo sugli animali e su noi stessi poiché fin là è giunta la loro insolenza. […]

Platone La Repubblica

L’educazione dei guardiani
“[…] Il mezzo più sicuro di premunirli contro le tentazioni è di dar loro realmente una buona educazione. Ebbene, non l’hanno ricevuta? Disse lui. Al che io risposi: non c’è ragione sufficiente per affermarlo, caro Glaucone: ciò che si può sostenere, come ho appena detto, è che bisogna dare loro la vera educazione, quale che sia, per disporli il meglio possibile a essere dolci gli uni verso gli altri e verso coloro che sono sotto la loro guida. Tu hai ragione, disse lui. Oltre a questa educazione, il buon senso dice che occorre assegnar loro delle case e dei beni che non impediscano loro di essere dei guardiani il più possibile perfetti e che non li portino a maltrattare gli altri cittadini. In effetti è indicato. Vedi dunque, dissi, se per renderli tali non occorra imporre loro il regime e l’alloggio che ti sto per dire. Innanzitutto nessuno di loro avrà niente che gli appartiene in proprio, salvo gli oggetti di prima necessità, in secondo luogo nessuno avrà abitazione o cella in cui chiunque non possa entrare. Quanto al nutrimento necessario a degli atleti guerrieri sobri e coraggiosi essi si metteranno d’accordo con i loro concittadini che forniranno loro in ricompensa dei loro servizi i viveri esattamente indispensabili per un anno, senza che ci siano né eccessi né mancanze, verranno regolarmente ai pasti pubblici e vivranno in comunità come dei soldati in campagna. Per quanto riguarda l’oro e l’argento gli si dirà che sono sempre nella loro anima oro e argento divino e che essi non hanno bisogno dell’oro e dell’argento degli uomini, che è empio contaminare il possesso dell’oro divino unendolo a quello dell’oro terreno poiché innumerevoli crimini hanno avuto per causa le monete d’oro del volgo, mentre l’oro della loro anima è puro; che essi solo tra tutti i cittadini non devono maneggiare o toccare oro e argento, né entrare sotto un tetto che lo ripari, né portarne addosso, né bere nell’argento o nell’oro, che è il solo modo di assicurare la loro salute e quella dello stato. Da quando avessero in proprietà come gli altri un campo, delle case, dell’oro, da guardiani che sono, diventerebbero economi e industriosi, e da difensori della città, suoi nemici e tiranni, che odiano e sono odiati, che ingannano e sono ingannati, è così che passeranno tutta la loro vita, essi temeranno assai di più i nemici interni di quelli esterni e correranno allora in fondo all’abisso: essi e la città. Ecco per quali ragioni – proseguii – ho creduto di dover fare questo regolamento sugli alloggi e i possessi dei guardiani. Bisogna, o no, sancirlo per legge? Bisogna assolutamente, disse Glaucone [..]”

Platone Crizia

Atlantide
“[…] A capo degli uni dunque, si diceva, era questa città, che sostenne la guerra per tutto il tempo, gli altri invece erano sotto il comando dei re dell’isola di Atlantide, la quale, come dicemmo, era a quel tempo più grande della Libia e dell’Asia, mentre adesso, sommersa da terremoti, è una melma insormontabile che impedisce il passo a coloro che navigano da qui per raggiungere il mare aperto, per cui il viaggio non va oltre. […] Gli dèi infatti un tempo si divisero a sorte tutta quanta la terra secondo i luoghi – non per contesa […] Ed ecco dunque qual era press’a poco l’inizio di questo lungo racconto. Come si è detto prima, a proposito del sorteggio degli dèi, che si spartirono tutta la terra, in lotti dove più grandi dove più piccoli, e istituirono in proprio onore offerte e sacrifici, così anche Poseidone, che aveva ricevuto in sorte l’isola di Atlantide, stabilì i propri figli, generati da una donna mortale, in un certo luogo dell’isola. Vicino al mare, ma nella parte centrale dell’intera isola, c’era una pianura, che si dice fosse di tutte la più bella e garanzia di prosperità, vicino poi alla pianura, ma al centro di essa, a una distanza di circa cinquanta stadi, c’era un monte, di modeste dimensioni da ogni lato. Questo monte era abitato da uno degli uomini nati qui in origine dalla terra, il cui nome era Euenore e che abitava lì insieme a una donna, Leucippe. Generarono un’unica figlia, Clito. La fanciulla era ormai in età da marito, quando la madre e il padre morirono. Poseidone, avendo concepito il desiderio di lei, sì unì con la fanciulla e rese ben fortificata la collina nella quale viveva, la fece scoscesa tutt’intorno, formando cinte di mare e di terra, alternativamente, più piccole e più grandi, l’una intorno all’altra, due di terra, tre di mare, come se lavorasse al tornio, a partire dal centro dell’isola, dovunque a uguale distanza, in modo che l’isola fosse inaccessibile agli uomini: a quel tempo infatti non esistevano né imbarcazioni né navigazione. Egli stesso poi abbellì facilmente, come può un dio, l’isola nella sua parte centrale, facendo scaturire dalla terra due sorgenti di acqua, una che sgorgava calda dalla fonte, l’altra fredda; fece poi produrre dalla terra nutrimento d’ogni sorta e in abbondanza.
Generò cinque coppie di figli maschi, li allevò e dopo aver diviso in dieci parti tutta l’isola di Atlantide, al figlio nato per primo dei due più vecchi assegnò la dimora della madre e il lotto circostante, che era il più esteso e il migliore, e lo fece re degli altri, gli altri li fece capi e a ciascuno diede potere su un gran numero di uomini e su un vasto territorio. Diede a tutti dei nomi, a colui che era il più anziano e re assegnò questo nome, che è poi quello che ha tutta l’isola e il mare, chiamato Atlantico perché il nome di colui che per primo regnò allora era appunto Atlante. […] La stirpe di Atlante dunque fu numerosa e onorata, e poiché era sempre il re più vecchio a trasmettere al più vecchio dei suoi figli il potere, preservarono il regno per molte generazioni, acquistando ricchezze in quantità tale quante mai ve n’erano state prima in nessun dominio di re, né mai facilmente ve ne saranno in avvenire, e d’altra parte potendo disporre di tutto ciò di cui fosse necessario disporre nella città e nel resto del paese. Infatti molte risorse, grazie al loro predominio, provenivano loro dall’esterno, ma la maggior parte le offriva l’isola stessa per le necessità della vita: in primo luogo tutti i metalli, allo stato solido o fuso, che vengono estratti dalle miniere, sia quello del quale oggi si conosce solo il nome – a quel tempo invece la sostanza era più di un nome, l’oricalco, estratto dalla terra in molti luoghi dell’isola, ed era il più prezioso, a parte l’oro, tra i metalli che esistevano allora – sia tutto ciò che le foreste offrono per i lavori dei carpentieri: tutto produceva in abbondanza, e nutriva poi a sufficienza animali domestici e selvaggi. In particolare era qui ben rappresentata la specie degli elefanti […] A ciò si aggiunga che essenze profumate che la terra produce ai nostri giorni, di radici, di germoglio, di legni, di succhi trasudanti da fiori o da frutti, le produceva tutte e le faceva crescere bene; e ancora, forniva il frutto coltivato e quello secco che ci fa da nutrimento e quei frutti dei quali ci serviamo per fare il pane – tutte quante le specie di questo prodotto le chiamiamo cereali – e il frutto legnoso che offre bevande, alimenti e oli profumati, il frutto dalla dura scorza, usato per divertimento e per piacere, difficile da conservare, così quelli che serviamo dopo la cena come rimedi graditi a chi è affaticato dalla sazietà: tali prodotti l’isola sacra che esisteva allora sotto il sole, offriva, belli e meravigliosi, in una abbondanza senza fine.
Prendendo dunque dalla terra tutte queste ricchezze, costruivano i templi, le dimore regali, i porti, i cantieri navali e il resto della regione, ordinando ogni cosa nel seguente modo. Le cinte di mare che si trovavano intorno all’antica metropoli per prima cosa le resero praticabili per mezzo di ponti, formando una via all’esterno e verso il palazzo reale. Il palazzo reale lo realizzarono fin da principio in questa stessa residenza del dio e degli antenati, ricevendolo in eredità l’uno dall’altro, e aggiungendo ornamenti a ornamenti cercavano sempre di superare, per quanto potevano, il predecessore, finché realizzarono una dimora straordinaria a vedersi per la grandiosità e la bellezza dei lavori […]

Antonio de Guevara Libro Aureo di Marco Aurelio

Discorso dei sapienti dei Garamanti al re Alessandro.
“[…] E’ costume tra i Garamanti, o re Alessandro, di parlare poco gli uni con gli altri, e di non parlare quasi mai con gli stranieri, specialmente se sono uomini scandalosi e ribelli perché la lingua dell’uomo malvagio non è altro che la dimostrazione pubblica del suo cuore marry e sgradevole. Quando ci hanno detto che tu venivi nel nostro paese, immediatamente abbiamo deciso di non riceverti, né di resisterti, né di alzare gli occhi a guardarti, né di aprire la bocca a parlarti, né di muovere le mani ad annoiarti, né dichiararti guerra per offenderti: poiché troppo più grande è il disprezzo che noi abbiamo delle ricchezze e degli onori che tu ami, che non l’ amore che tu abbia di queste ricchezze e onori che noi disprezziamo. Hai voluto che noi ti avessimo visto non volendo vederti, e ti avessimo servito non volendo servirti e che ti parliamo non volendo parlarti; siamo contenti di farlo in questo modo alla condizione che tu abbia la pazienza di ascoltarci e che ciò che diremo servirà più per emendare la tua vita che non per farti desistere dal conquistare il nostro paese perché è ben giusto che i Principi dei secoli a venire sappiamo perché teniamo in così poco conto ciò che è chiaramente nostro e perché tu muori affaticandoti e prendendoti tanta pena per prendere ciò che è chiaramente d’altri. O Alessandro, io ti domando una cosa, alla quale dubito che mi darai riposta perché i cuori superbi hanno sempre lo spirito offuscato. Dimmi dove vai, da dove vieni e cosa vuoi, cosa pensi, cosa desideri, cosa chiedi, cosa domandi, e cosa cerchi, cos’è dunque che tu desideri, che tu procuri a te stesso e fino a quale regno o provincia si estendono i tuoi disordinati appetiti e bramosie? Non senza motivo ti domando ciò che ti domando, cosa tu chiedi, cosa domandi, cosa cerchi, poiché penso che tu non sai cosa cerchi poiché i cuori superbi e ambiziosi non sanno essi stessi cosa li soddisfa. Poiché tu sei ambizioso, l’onore ti delude, per essere prodigo la cupidigia ti induce in errore, poiché sei giovane, l’ignoranza ti trae in inganno, e poiché sei superbo il mondo si ride apertamente di te in modo che tu insegui le persone, e tu non insegui la ragione, tu insegui la tua personale opinione e trascuri i consigli di altri, tu ami gli adulatori e respingi lontano da te gli uomini virtuosi e saggi, poiché i Principi e gran Signori preferiscono essere lodati per menzogna che essere biasimati secondo verità […]”.

Charles Fourier Dell’anarchia industriale e scientifica

La legge dell’Attrazione

” […] Ma se Dio desidera che noi usciamo da quest’abisso di falsità e di miseria che si chiama Civilizzazione, Barbarie ecc., quale via di uscita ha approntato? Non può essere che il metodo opposto a quello da cui nasce il male, che lo stato di associazione e verità. Ora, come organizzarlo, quali risorse impiegare, quale oracolo, quale teoria consultare? Ecco il grande problema che avrebbe dovuto occupare il mondo scientifico. La risorsa, è l’Attrazione; l’oracolo, è l’Attrazione; in effetti Dio l’ha scelta perché è insieme interprete e motore. E’ attraverso l’analisi e la sintesi dell’Attrazione che si può scoprire il meccanismo assegnato da Dio alle relazioni industriali. Se voleva impiegare una risorsa diversa dall’Attrazione, sarebbe dunque la costrizione poiché Dio non può optare che tra queste due leve. Se Dio avesse voluto dirigerci diversamente che con l’Attrazione, gli sarebbe stato ben facile adoperare vie coercitive, creando dei giganti squamosi di 100 e 150 piedi di altezza, giganti tanto facili da creare che i grandi cetacei, il cui volume sviluppato sotto forma umana darebbe dei colossi di 150 piedi, squamosi, anfibi, invulnerabili. Questi giganti, iniziati alle nostre arti e rinserrati in qualche isola in cui formerebbero i loro arsenali, rifornendosi di materie nei nostri porti, potrebbero uscirne inopinatamente per venire a castigare i regni ribelli alla volontà divina, distruggere le loro flotte, incendiare le loro città, senza che si potesse tentar di resistere: poiché con dei fucili o colubrine di 100 piedi di canna e 5 piedi di diametro lancerebbero, da un luogo lontano, sulle nostre armate, mille palle di cannonate, che sarebbero per essi ciò che sono per noi i pallini di piombo; e poi falcerebbero le foreste e le getterebbero come fascine infiammati sulle nostre capitali accerchiate. D’altronde Dio non ha la via dei fulmini o dei terremoti. Se non si è degnato di ricorrere a questi mezzi oppressivi della legislazione umana, è una prova che egli non vuole operare che attraverso l’Attrazione che cumula le due proprietà di interprete e motore pieno di charme. E’ il solo agente degno di un Dio economo e benevolo […]”

Louis Sebastien Mercier L’anno 2440

Io ho settecent’anni.

“[…] Era mezzanotte quando si ritirò il mio vecchio Inglese. Io ero un po’ stanco: chiusi la mia porta e mi coricai. Da che il sonno si distese sulle mie palpebre, sognai che eran molti secoli che mi ero addormentato, e che mi svegliavo. Mi alzai e sentii nelle membra un peso a cui non ero abituato. Le mie mani erano tremanti e vacillanti i miei piedi. Guardandomi nel mio specchio, stentai a riconoscere il mio volto. Mi ero coricato coi capelli biondi, con una carnagione bianca e con le guance colorite. Quando mi alzai, la mia fronte era solcata di rughe, i miei capelli eran diventati bianchi, avevo due ossa sporgenti al di sotto degli occhi, un naso lungo e un pallido e scolorito colore era sparso in tutta la mia figura. Quando volli camminare, appoggiai meccanicamente il mio corpo a un bastone,ma almeno non avevo ereditato il cattivo umore, che è troppo comune nei vecchi. Uscendo da casa, vidi una piazza pubblica a me sconosciuta. Vi era stata eretta una colonna piramidale che attraeva gli sguardi dei curiosi. Vado avanti e leggo distintissimamente: l’anno di grazia MMIVCXL. Questi caratteri erano incisi sul marmo a lettere d’oro. Da principio immaginai che fosse un errore dei miei occhi, o piuttosto uno sbaglio dell’artefice, e mi preparavo a farne osservazione, quando la mia sorpresa diventò maggiore, nel gettar lo sguardo su due o tre editti del sovrano attaccati alle mura. Io sono stato sempre un curioso lettore degli affissi di Parigi e vidi la stessa data MMIVCXL fedelmente impressa su tutte le carte pubbliche. E che – dissi fra me e me – sono dunque diventato ben vecchio senza accorgermene che ho dormito seicentosettantadue anni’! Tutto era cambiato. Tutti quei quartieri che mi erano tanto noti, mi si presentavano sotto una forma differente e rinnovata da poco. Ero smarrito in tante belle e magnifiche strade perfettamente livellate. Entravo in trivi spaziosi dove regnava un così buon ordine che non vi si scorgeva il più leggero imbarazzo. Non sentivo nessuna di quelle grida confusamente bizzarre che un tempo laceravano le mie orecchie. Non incontravo nessuna carrozza pronta a schiacciarmi. Un podagroso avrebbe potuto passeggiarvi tranquillamente. La città aveva un’aria animata, ma senza traffico e senza confusione. Io ero così meravigliato che non vedevo i passanti che si fermavano e mi guardavano da capo a piedi con la maggiore sorpresa. Essi si stringevano nelle spalle, e sorridevano come facciamo ancor noi quando incontriamo una maschera: infatti il mio vestiario doveva sembrare ad essi originale e grottesco tanto era differente dal loro. Un cittadino, che in seguito riconobbi per un letterato, mi si avvicinò e mi disse cortesemente, ma con una gravità sostenuta: “Buon vecchio, a che serve questo travestimento? Il vostro progetto è di tornare a rappresentarci gli usi ridicoli di un secolo bizzarro? Noi non abbiamo alcuna voglia d’imitarli. Lasciate questo vano scherzo”. “Come? – gli risposi – No, io non sono assolutamente travestito: porto gli stessi abiti che portavo ieri: sono le vostre colonne, i vostri affissi che mentono. Pare che voi riconosciate un altro sovrano che Luigi XV. Io non so quale può essere la vostra idea, ma la credo pericolosa e ve ne avverto; non si scherza con simili mascherate: nessuno è pazzo a questo segno: in ogni caso voi siete impostori senza alcun fondamento poiché non potete ignorare che nulla prevale contro l’evidenza della sua propria esistenza.” O che quest’uomo si persuadesse che io deliravo, o che pensasse che la grande età che dimostravo mi facesse vaneggiare, o che avesse qualche altro sospetto mi domandò in quale anno ero nato. “Nel 1740”- gli risposi. “Ebbene a questo conto voi per l’appunto avete settecento anni. Non dobbiamo meravigliarci di cosa alcuna ‘ disse egli alla moltitudine che mi circondava – Enoch, Elia non sono morti; Matusalemme e qualche altro sono vissuti fino a 900 anni, Nicolò Flamel scorre il mondo come il giudeo errante e il signore forse ha trovato l’elisir immortale o la pietra filosofale.”. Pronunziando queste parole ci sorrideva e ciascuno mi si accostava con una compiacenza e con un rispetto ben particolare. Essi anelavano tutti a interrogarmi ma la discrezione incatenava la loro lingua e si contentavano di dire sottovoce: “Un uomo del secolo di Luigi XV! O questo è curioso!” […]”.

Victor Considerant  e il Falansterio [nota  di Paola Urbani]

Considerant succederà a Fourier nella guida del giornale La Phalange e fu uno dei più convinti sostenitori delle sue idee. Che cos’era il Falansterio?
Il Falansterio, in cui prendono dimora le Falangi  composte da un numero di persone tra 1600 e 1800, è un edificio  a ferro di cavallo, che comprende alloggi di vario tipo  a seconda delle possibilità e dei gusti di ciascuno, e spazi comuni.  Viene costruito su un terreno irrigato e adatto a diverse culture, vicino a un bosco e non lontano da una grande città.
Consiste in un corpo centrale, con in mezzo la Torre d’ordine con l’orologio, le campane e i mezzi per comunicare (telegrafo e piccioni viaggiatori), su essa sventola la bandiera della Falange. Presso la Torre d’ordine ci sono la corte d’onore in cui si eseguono parate e manovre industriali, l’albergo per gli stranieri, le sale di rappresentanza. Dietro la Torre, il giardino d’inverno.  Alle ali esterne sono relegate le attività rumorose, come  le officine e le scuole di musica. Gli alloggi dei residenti sono così distribuiti: i vecchi a piano terra, i ragazzi al mezzanino e al piano superiore gli adulti.  Una strada-galleria percorre l’edificio, una arteria ora scoperta, ora chiusa da vetrate,  che ne mette tutte le parti in facile comunicazione. C’è abbondanza d’acqua e riscaldamento e luce sono centralizzati.

Vita pubblica
La Falange opera come una unità economica e industriale sostituendo con grande vantaggio di tutti alla concorrenza individuale una concorrenza corporativa e solidale, e utilizza una sola lingua. Essa si compone di serie di classi, che si suddividono in serie di ordini, che a loro volta si suddividono in serie di generi, specie, ecc. in modo che tutte le attività siano organizzate all’interno di una struttura logica. La legge fondamentale a cui obbedisce e la sua principale risorsa è l’ attrazione e per questo essenziali alla sua vita ‘frequenti e gioiose riunioni sociali’.

Vita privata
L’educazione dei bambini ha grande rilievo e viene considerata  compito collettivo che ha lo scopo di aiutare ciascuno a sviluppare le proprie potenzialità e ad assecondare i suoi interessi naturali. Si insegna la sola lingua nazionale: lo studio delle lingue è uno di ‘quei lavori faticosissimi e che producono meno di niente’.
Grande importanza viene attribuita invece all’insegnamento della gastronomia: in Armonia  ‘è essa la risorsa principale di equilibrio delle passioni’

Abbigliamento e alimentazione
Il cibo deve essere genuino e rappresentare un piacere. Il popolo deve diventare gastronomo. Perché accettare del vino adulterato o le farine di Borgogna? Perché un buon repubblicano dovrebbe mangiare solo il cavolo nero o le rape e bere acqua, disprezzando i piaceri della tavola?

Divertimenti e feste
Il modo di organizzazione del lavoro deve essere tale da renderlo attraente e variato in modo che esso divenga ‘sinonimo di piacere’. Questo avverrà se  il lavoro sarà eseguito in riunioni numerose e in sedute corte e variate.

Religione
Si crede nell’immortalità dell’anima e nelle ricompense riservate da Dio alle generazioni sfortunate.

Pierre Benoit e l’Atlantide [nota di Sabina Fiorenzi]

Atlantide, il continente perduto, o per meglio dire, il paradiso perduto. Le sue tracce conducono assai lontano: Platone fu il primo in area occidentale a menzionare questo mito, collocando quella civiltà in un passato remotissimo anche rispetto all’Atene di 2300 anni fa. Si può dire che, alla luce delle conoscenze geologiche attuali, gli eventi catastrofici a cui sembra far riferimento Platone quando allude al cataclisma che inghiottì Atlantide, si possono collocare intorno ai 10-11.000 anni fa, alla fine dell’ultima glaciazione.
I due dialoghi platonici in parte o completamente dedicati ad Atlantide sono il Timeo e il Critia. Nel primo uno dei protagonisti, il vecchio Critia, spiega agli altri – tutti ateniesi –  in qual modo si sia giunti all’attuale assetto geografico e politico delle terre conosciute. Indicando come fonte Solone e i sacerdoti egizi, Critia narra come in un tempo remoto una formidabile potenza avesse tentato di conquistare Europa e Asia. Si trattava di un popolo di avanzatissima civilizzazione proveniente da Atlantide, una grande isola esterna al Mare Mediterraneo, la quale, in virtù della sua posizione geografica davanti alle Colonne d’Ercole (lo stretto di Gibilterra), fungeva per così dire da ponte tra i vari continenti.
Un desiderio insaziabile di conquista aveva spinto i governanti di Atlantide a tentare – dopo la colonizzazione di molte aree del Mediterraneo – anche quella della Grecia e solo il valore degli ateniesi scongiurò questo evento. Essi infatti non solo difesero strenuamente i loro territori attaccati, ma liberarono gli altri già assoggettati e ricacciarono gli invasori al di là delle colonne d’Ercole. Ma lo sforzo fu inutile perché nel repentino volgere di un giorno e una notte gli eserciti contendenti vennero inghiottiti da uno spaventoso terremoto e contemporaneamente Atlantide sprofondò per sempre nell’oceano, depositandosi nella profondità degli abissi, cosa che rese per sempre impossibile la navigazione in quella parte di mare.

Il paragrafo dedicato ad Atlantide nel primo libro del “Mundus subterraneus” (1665) di Athanasius Kircher accoglie in toto la versione platonica del Timeo. Il gesuita tedesco pubblica un’antica mappa egizia che colloca l’isola di Atlantide nell’Oceano Atlantico con la Spagna e l’Africa sulla sinstra e l’America a destra. La didascalia in latino recita “Posizione di Atlantide, ora sotto il mare, secondo le credenze degli Egiziani e la descrizione di Platone”. Gli Egiziani però credevano che il sud, non il nord, si trovasse nella parte alta della terra, dato che il Nilo, fonte primaria della vita, scorre in quella direzione e quindi la sua sorgente doveva necessariamente trovarsi in cima al mondo: per questo motivo Kircher fa puntare la sua bussola ‘moderna’  verso il basso. Capovolgendo la mappa si avranno Africa e Spagna a oriente e America a occidente, così che l’isola di Atlantide risulta essere una sorta di propaggine meridionale della Groenlandia, da considerare insieme alle Canarie e alle Azzorre, un avanzo emerso dell’antico continente. Ma interpretando diversamente questa stessa mappa sono state formulate teorie su una posizione diametralmente opposta di Atlantide (Atlantide=Antartide), sulle quali non non c’è però spazio per soffermarsi in questa sede.

Ma seguiamo ancora Platone, perché la descrizione di Critia prosegue assai dettagliatamente nel dialogo a lui intitolato.
Quell’isola felice, nella spartizione del mondo fatta tra gli dei, era toccata in sorte a Poseidone, il quale, sposando l’orfana Clito, generò quella dinastia regale di semidei dal cui primogenito Atlante, prese il nome l’isola. Lo stesso re del mare impresse subito al territorio quella singolare configurazione ad anelli concentrici terra-mare, terra-mare che determinò l’inaccessibilità del palazzo reale sull’acropoli. Davvero fortunato, Poseidone: si trattava di una terra fertilissima, ricca di acque, di boschi, di animali meravigliosi delle specie più varie, di metalli preziosi (tra cui il famoso e misterioso oricalco) e i suoi 10 nobili figli rivaleggiavano tra loro in magnificenza e in sontuosità, facendo edificare colossali opere edilizie con tecniche sofisticate. Un potente esercito e un porto riparato e superbamente attrezzato garantivano agli abitanti sicurezza e proficui scambi commerciali. I sovrani regnavano in giustizia e concordia reciproca, tutto sembrava procedere nel massimo dell’armonia e della pace finché il comportamento degli uomini ingrati non cominciò a degenerare, al punto tale che Zeus dette mano alle sue folgori e scatenò il cataclisma che distrusse Atlantide e i suoi iniqui abitanti. Fin qui Platone. E da qui partirono nel mondo occidentale tutte le indagini sul mitico continente inghiottito dai flutti che hanno dato vita alle ipotesi più varie, Atlantide nell’Atlantico, nel Mediterraneo, nei Caraibi, nel Sahara, un tempo fondale di un lago immenso, dilagato nel canale che separava i continenti Africa e Atlantide a causa dei violenti terremoti che distrussero i suoi argini, sommergendo definitivamente quest’ultimo sotto di se’.

Quest’ultima infatti è la versione dell’accaduto che un vecchio bibliotecario offre all’ufficiale Saint-Avit e al suo collega Morhange, al loro risveglio – dopo essere stati drogati e là trascinati – nel palazzo reale delle perduta Atlantide, nell’omonimo romanzo di Benoit (1919). In quell’ultimo nascosto baluardo dell’isola scomparsa regna Antinea – il cui nome significa “nuova antlantidea” – donna bellissima dal fascino conturbante, discendente di Poseidone e Clito. La regina alimenta la propria eterna giovinezza con la vita degli uomini che fa innamorare di se’; Saint-Avit, preda di quel fascino letale, compie un crimine efferato. Ripreso possesso di se’, riesce a fuggire: ma il ricordo di Antinea, come il canto di una sirena del deserto, non gli darà tregua. Deciderà fatalmente di tornare ad Atlantide e compiere così il suo destino d’amore e morte.

Si espone un esemplare dell’opera magnificamente rilegato dal laboratorio di René Kieffer di Parigi, un’edizione del 1922 illustrata da 24 acquaforti originali di Lobel-Riche. Le incisioni – in perfetta sintonia con il clima arroventato e visionario del romanzo – descrivono personaggi e ambienti esotici ma soprattutto tramandano l’eterno femminino incarnato da Antinea, mantide divoratrice di uomini, vera femme fatale, in tutta la sua sconvolgente e morbosa sensualità.

Robert Owen e il Nuovo Mondo Morale [nota di Paola Urbani]

Owen propone la creazione di un Nuovo Mondo Morale, ‘fondato su verità universali ed eterne’. Lo scopo è di assicurare le condizioni necessarie alla felicità di tutti; il mezzo una direzione giusta impressa  alla natura umana nel periodo dell’infanzia attraverso una educazione all’amore e alla solidarietà. Owen è contemporaneo di Fourier,  ma la sua società ideale ha rispetto a quella di Fourier (che la contesta aspramente)  una più forte connotazione utopistica e comunitaria. Egli applicò alcuni dei suoi principi nella direzione del suo cotonificio a  New Lanark (Scozia) in cui migliorò le condizioni dei lavoratori.
Per la realizzazione  integrale del  suo progetto, Owen acquistò poi 30.000 acri nell’Indiana e il 3 gennaio 1825 otto o novecento persone  costituirono il primo nucleo di quella che egli chiamò New Harmony. Ma contrasti interni e la secessione di alcuni gruppi dissidenti minarono la comunità che Owen stesso abbandonò nel 1828. La stessa sorte toccò ad altre due comunità fondate da suoi seguaci a Orbiston in Scozia nel 1826 e a Ralahine in Irlanda nel 1831.

Descrizione
La comunità ideale è un insediamento di 1200 persone su 1000-1500 acri di terreno. Gli edifici sono comuni e  hanno quattro lati: tre destinati alle case, il quarto a dormitori per bambini di più di tre anni o quando eccedessero il numero di due per famiglia. All’esterno orti e giardini e ancora all’esterno laboratori e industrie.

Vita pubblica
Le comunità sono  autosufficienti, basate su una organizzazione comunitaria della produzione. Ciascun insediamento deve avere  terreno intorno tale da assicurare  raccolti abbondanti, deve possedere manifatture,  miniere, esercitare la pesca e la navigazione. La popolazione viene ripartita in 8 classi con responsabilità crescenti a seconda dell’età: si passa da una  classe all’altra ogni cinque anni, fatta eccezione per la classe settima (dai 30 ai 40 anni che si occuperà degli affari interni alla comunità) e per la classe ottava (dai 40 ai 60 anni), che ha il compito di provvedere agli ordinamenti e rapporti esterni.
Non si usa moneta, considerata da Owen ‘radice di grande ingiustizia’.

Vitta privata
Tutti i bambini ricevono la stessa educazione, ‘secondo la scienza posseduta in un dato tempo riguardo alla buona formazione del carattere umano’. Ognuno deve imparare oltre alla lingua dei propri genitori, una lingua generale ‘destinata a divenire il linguaggio della verità e del mondo’ , e  riceve cognizioni e una educazione tali da renderlo sano e ‘caritatevole’ per tutta la  vita. Per questo  non ci sarà nessun bisogno di esercito, di chiesa, di medici o di avvocati.

Francesco Patrizi e la Città felice [nota di Paola Angori]

Patrizi, filosofo e letterato del Rinascimento studiò a Padova dove ebbe tra i suoi maestri il Robortello; nel 1553 pubblicò alcuni poemetti di argomento morale ed estetico, tra cui “La città felice”, dove si avverte l’influenza del platonismo.

Descrizione

La città felice è quella nella quale si trovano tutte le cose occorrenti per il benessere (felicità, secondo la concezione aristotelica) del corpo e dell’anima.
La città, pertanto, deve per prima cosa essere in grado di produrre il cibo e le bevande necessarie per il nutrimento del corpo. Poiché il cibo non sempre può essere ingerito allo stato naturale, come raccolto dai contadini, occorre che lo stesso sia trasformato. A ciò provvede una ‘turba di molinai, di frangiceci, di pistori, di fornai, di macellai, di cuochi …’ i quali, a loro volta, hanno bisogno di altrettanti artigiani (‘artefici’, quali fabbri, muratori, legnaiuoli) che preparino loro gli strumenti di lavoro.
Per quanto concerne l’ubicazione (il ‘sito’), la città ideale deve essere posta in una zona dal clima mite, dove non siano prevalenti il caldo o il freddo, deve essere cioè edificata, preferibilmente, in parte su di un colle, in parte in pianura, in modo da avere non solo un riparo dal gran freddo o dal gran caldo, ma da avere anche una bella veduta del panorama e una fortificazione contro gli attacchi dei nemici.
La città inoltre deve essere lontana dalle paludi, dalle acque stagnanti e da zone in cui vi sia l’inquinamento atmosferico (‘aere corrotto’).

Vita pubblica
Nel paragrafo 6 si parla ‘della popolazione e della sua uguaglianza’. Si tratta, però di un’enunciazione soltanto teorica, infatti nel precedente paragrafo 4 è scritto, a proposito dei contadini, che ‘perché i cittadini possano più liberamente loro comandare, è bisogno che (essi) sieno servi’.
Fra i compiti di coloro che gestiscono la cosa pubblica sono indicati quelli dell’ordine pubblico e della difesa esterna [difesa dal nemico interno (domestico) e da quello esterno].
Per il raggiungimento del primo scopo vengono indicati:
la conoscenza reciproca dei cittadini tra loro che a sua volta genera l’amore reciproco, per cui l’Autore esprime la sua contrarietà ad una città sovrappopolata;
la celebrazione, almeno una volta al mese, di ‘pubblici conviti’;
‘egualità, e nelle possessioni private, e nelle degnità’;
il timore della pena
Riguardo a quest’ultimo punto, occorre isolare dalla comunità cittadina qualunque esecutore di malignità. Il compito di vigilare sull’osservanza delle leggi spetta ai magistrati, affiancati da altri collaboratori della giustizia.
Per quanto concerne la difesa esterna della città, si ammette l’uso delle armi.  Vengono pertanto esaminate ed analizzate due distinte ipotesi: quella dell’attacco nemico da terra e quella dell’attacco nemico dal mare.
Quanto al governo della città, esso spetta agli anziani, atteso che, alla prudenza dono di natura (prudenza che è comune anche ai giovani), in essi si aggiunge anche la prudenza acquisita con l’esperienza.
Viene quindi esaminato, in verità piuttosto sommariamente, il commercio che viene giustificato soprattutto con la necessità di far fronte alle spese militari, e che dà lo spunto  per affermare che la nostra città deve essere una città di mare, atteso che ‘la mercanzia più vale per mare e più facilmente si essercita, che per terra non si fa’.
Ci si occupa, infine, sotto l’aspetto organizzativo, della religione e cioè dell’esigenza dell’animo umano di avere una religione. Il discorso si conclude con l’elencazione delle sei categorie (‘maniere’) di uomini che devono contribuire a rendere beata la città: i contadini, gli artigiani (‘artefici’), i mercanti ‘mercatanti’),i guerrieri, i magistrati, i sacerdoti. I primi tre ordini (contadini, artigiani e mercanti) non devono godere dei privilegi, preminenze, agi e comodità di cui godono i restanti ordini (guerrieri, magistrati e sacerdoti) e devono invece subire  ‘il servizio, gli stenti e le fatiche’. La ‘nostra città (deve) avere due parti, l’una servile e misera, l’altra signora e beata; e questa propriamente (può) chiamarsi cittadina, come quella che negli onori e nelle preminenze della repubblica ha mano e ne è padrona’.

Vita privata
L’Autore si preoccupa del benessere del bambino e della sua corretta educazione fin dal momento del suo concepimento. Detto benessere è finalizzato e alla ‘propria felicità’ e ai ‘servigi della repubblica’. A questo benessere (materiale e spirituale) del figlio è collegato quello della madre durante la gravidanza, la quale dovrà, in quel periodo, visitare le chiese, essere allegra e ‘scacciare i noiosi pensieri’.
Per quanto concerne l’educazione dei figli, viene fatta distinzione tra ‘allevamento dei figlioli’ (fino al compimento del quinto anno di età) e ‘educazione dei figlioli’.  Quest’ultima deve consistere nel ‘serrare’ all’anima ‘il camino, che al vizio la trabocca’ e nel spronarla ‘ad intrare l’erta dell’aspro monte, nella cui cima la virtù tiene il paradiso delle sue delizie’ .Occorre pertanto evitare che il fanciullo veda o oda ‘cose viziose e disoneste’. Come rimedio contro la tentazione di cadere nel vizio vengono suggerite le punizioni corporali, mentre come sprone alla virtù viene  indicata ‘la speranza di quel glorioso premio, che la virtù suol dare a quelli che al suo paradiso son pervenuti’.Per educare i fanciulli, in luoghi pubblici, occorre istruirli e ammaestrarli nelle virtù morali, ‘con i precetti e con gli esempi’. Gli insegnamenti che non devono mancare sono quelli della filosofia, della musica e della grammatica.

Abbigliamento e alimentazione
Se ne parla nei primi paragrafi, a proposito della natura dell’uomo, dei bisogni dell’anima e del corpo, e delle cose occorrenti per conseguire la felicità, e se ne parla altresì a proposito dell’allevamento dei figliuoli.
Sia l’abbigliamento, sia l’alimentazione devono essere rapportati alle condizioni climatiche della zona e devono assicurare il soddisfacimento ottimale dei bisogni umani.

Religione
Si è parlato della religione, assieme al commercio, a proposito della organizzazione della città e si è fatto cenno ad essa a proposito dei bisogni dell’anima. Nel paragrafo 12 viene indicata la strada che porta alla felicità, e che è data dall’esercizio delle virtù morali: per essere beati gli uomini devono essere virtuosi. Tra le virtù vengono esaltate quelle della pace a preferenza di quelle della guerra. Il paragrafo termina, però, con l’invito, rivolto al legislatore, ad aver cura prima delle cose del corpo e poi di quelle dell’anima.

Francois Rabelais e l’Abbazia di Telema [nota di Paola Angori]
La storia dell’Abbazia di Telema è contenuta nel primo vol. capitolo LIII di Gargantua e Pantagruel. L’Abbazia fu costruita da Gargantua dopo la guerra, grazie a lui vittoriosa scoppiata tra Picrochole e Grandgousier, a causa di una disputa per il mercato delle focacce.

L’abbazia di Telema è composta di sei piani, ha forma esagonale; a ciascun angolo si trova una grossa torre rotonda avente il diametro di 60 passi. In mezzo alla corte bassa si trova una fontana di alabastro con al di sopra una statua delle tre Grazie che gettano acqua da tutte le aperture del corpo. Tra una torre e l’altra si trovano giardini con piante sia da frutto, sia decorative. Vi sono in tutto 9.332 camere, ognuna con anticamera, bagno, guardaroba, cappella, tappezzate in diversi modi secondo le stagioni dell’anno. Il pavimento è coperto di panno verde, in ogni anticamera vi è uno specchio di cristallo incassato in oro sottile, guarnito di perle, il quale volendo può riflettere l’intera figura.
I telemiti sono colti e raffinati, conoscono 5 o 6 lingue, sanno conversare, amano la poesia e la musica. Fa loro piacere fare quanto vedono dar piacere ad uno di loro. L’abbigliamento è sfarzoso, alla moda francese in inverno, alla moda spagnola in primavera, alla turca d’estate.  Tra uomini e donne esiste molta simpatia al punto che ogni giorno i vestiti sono simili, secondo la scelta delle dame. È un ambiente arioso, dove tutta la regola si riassume nella prescrizione di fare ciò che si vuole.

Jean-Jacques Rousseau e la Nouvelle Eloise [nota di Paola Angori]

Questa storia si può considerare in un certo senso autobiografica per ciò che riguarda la passione che aveva l’Autore per la vita semplice della natura, che divenne la base di ogni sua aspirazione morale. Nel suo romanzo d’amore, Julie ou la nouvelle Héloïse, il Rousseau raffigura il sogno di tutta la sua vita sentimentale. Quest’opera ci offre l’immagine del mondo in cui l’Autore avrebbe voluto vivere, tessuta degli elementi nostalgici di quella vita che gli era stata concessa nei suoi giorni migliori.
L’autore, rivolgendosi ad un signore cui rivolge l’invito a visitare la sua casa, esprime innanzitutto il compiacimento di vivere in una casa di campagna semplice, senza fasto e senza lusso, dove regna l’ordine, la pace e l’innocenza e dove è possibile condurre una vita secondo i propri gusti e in un contesto sociale adatto al proprio ‘cuore’.
Passa, quindi, a descrivere le modifiche apportate alla casa di Clarens al fine di renderla più funzionale, anche se meno adatta ‘per essere veduta’ (locali meglio distribuiti e mobili più semplici), modifiche che hanno riguardato anche i locali di servizio (‘abitazione della bassa famiglia’, abitazione della famiglia colonica) e l’orto-giardino in modo da dare alla casa ‘un’ aria più campestre, più viva, più animata (canto dei galli, muggito dei buoi, ecc.) , più allegra’.
Le terre non vengono affittate, ma coltivate direttamente. Le coltivazioni principali sono quelle dei prati, del grano, dei boschi e soprattutto delle vigne. Il fine perseguito con tali coltivazioni non è quello del lucro, ma di ‘nutrire più  gente’. Vengono, quindi, indicati i criteri ai quali ci si deve ispirare per ottimizzare i fattori della produzione. In particolare, per quanto concerne l’utilizzo dei lavoratori agricoli, deve essere data la preferenza ai lavoratori del posto rispetto agli stranieri e agli sconosciuti, devono essere corrisposti salari differenziati al fine di incoraggiare i lavoratori ad incrementare la produzione, e deve essere istituito un sistema di ispezioni scegliendo gli ispettori tra gli appartenenti alla famiglia rurale. Lo stesso proprietario dei terreni (il Signore di Wolmar) li visita quotidianamente ‘e spesso più volte al giorno’ assieme alla moglie che è solita dare, nei periodi di maggiore lavoro, delle piccole elargizioni di denaro ai più operosi. Ma più che con queste elargizioni di denaro, la padrona conquista l’affetto dei lavoratori con l’amore e la dolcezza, interessandosi ai loro problemi familiari, partecipando alle loro gioie e ai loro dolori e dando loro dei consigli. Con l’affabilità ottiene, quindi, in cambio dai domestici una maggiore solerzia nel lavoro, in quanto si sentono più legati alla famiglia. Particolare cura deve essere inoltre posta nella scelta dei domestici: costoro devono essere innanzitutto onesti, devono amare il padrone ed essere disposti a ‘servirlo a suo piacere; ma purché un Padrone sia ragionevole, e un domestico intelligente’. I domestici devono essere presi dalla campagna e non dalla città, devono essere presi da una famiglia numerosa e devono essere gli stessi genitori ad offrirli ai padroni. Devono essere ‘giovani ben fatti, di buona salute, e di buona fisionomia’. I domestici, prima di essere assunti in servizio (all’inizio in prova e poi nel novero della famiglia), vengono prima interrogati ed esaminati dal signore di Wolmar e poi presentati a sua moglie. Segue un periodo di formazione e di addestramento durante il quale i domestici si affezionano ai loro padroni senza che essi ‘prendano a sdegno la loro antica vita di campagna’ e, senza che essi, dopo essere stati addestrati e dopo essersi affezionati, siano presi dalla tentazione di andare a servire un altro padrone (esigenza di prevenire ‘l’obiezione sì comune e sì poco sensata: Io gli avrò formati per altri). A tal fine occorre ottimizzare il numero dei domestici: un domestico a servizio in una casa da lungo tempo riceve un salario maggiorato che si raddoppia nel corso di venti anni. Di qui l’esigenza di limitare il numero dei salari doppi da pagare, rinunciando allo sfarzo in cambio di un buon servizio, che può essere assicurato solo dallo zelo di un antico fedele e affezionato servitore, e non da un novizio senza affetto verso i padroni.

Voltaire e l’Eldorado [nota di Paola Urbani]

Eldorado era il nome dato dagli Spagnoli a una mitica città dell’America meridionale a Nord dell’equatore, chiamata anche Manoa, che si credeva fondata dagli Incas e ricchissima di giacimenti d’oro, e che fu perciò  meta nei secoli XVI-XVIII di molte sfortunate spedizioni.
Walter Raleigh scrive che essa di gran lunga supera per bellezza e ricchezze tutte le città di tutto il mondo e cita passi dall’Historia Universalis di Francisco Lopez in cui vengono descritte case ricchissime in cui tutti gli utensili sono d’oro o d’argento.
Voltaire riprende il mito dell’Eldorado in Candide (1759), trattando il tema della ricchezza e della felicità con la sua abituale sorridente ironia e facendo insieme un racconto e una parodia dell’utopia. Il suo Eldorado  è una grande pianura circondata da  montagne dritte come muraglie e alte dieci mila piedi e da precipizi. E’ coltivato, sia ‘per il piacere che per il bisogno’. Le strade sono percorse da carrozze brillanti con su uomini e donne di singolare bellezza, trainate da grossi montoni rossi. Gli edifici pubblici sono altissimi, le strade adornate di mille colonne, vi zampillano fontane di acqua pura e di liquori di canna da zucchero.
Gli abitanti vivono a lungo, oltre 170 anni, e non hanno alcuna preoccupazione materiale, ma non possono varcare le frontiere del regno. Vestono in broccato d’oro, o in ‘lanugine di colibrì’, tutte le osterie ‘stabilite per comodo di commercio’  sono pagate dal Governo e offrono pasti abbondanti e squisiti. Strade e piazze sono di pietre preziose e i bambini giocano a piastrelle con oro, smeraldi e rubini. Le case più semplici hanno il tetto d’oro e la porta d’argento.  Esiste un palazzo delle scienze, che contiene una  galleria lunga duemila passi, con tutti gli strumenti di matematica e fisica. Il governo è una monarchia, ma senza Corte di giustizia, né Parlamento, né prigioni.  Il cerimoniale è ridotto al minimo: abbracciare e baciare il re sulla guance. Non ci sono preti e non si litiga per questioni di religione. Si crede in un solo Dio, non si prega, ma si ringrazia soltanto poiché si ha tutto ciò che si desidera.
Eppure, arrivati per caso in Eldorado mentre erano in viaggio verso la Caienna, Candido e il suo servo Cacambo, pur restandone ammirati, decidono di lasciarlo per andare alla ricerca dell’amore  di Cunegonda. L’Eldorado resterà sempre nei loro pensieri, come l’unico in cui risiede la felicità, ma essi saranno poi paghi di una vita tranquilla. E Candide finisce con queste loro parole: ‘Tutto non va così bene quanto in Eldorado, ma non va neppure tanto male’.