Brevi cenni sull’universo ovvero La millenaria storia degli scacchi [di Alessandro Sanvito, studioso di storia degli scacchi]

le immagini che illustrano l’editoriale sono tratte da Ruy Lopez de Segura Il giuoco degli scacchi nuovamente tradotto in lingua italiana da Gio. Domenico Tarsia. Venetia, 1584

Tra i giochi di antica origine conservatisi, pur con varie modificazioni, sino ai nostri giorni, forse il più meritevole di attenzione è senz’altro quello degli scacchi. Esso possiede, oltre al naturale aspetto di competizione intellettuale, una precisa connotazione simbolica, frequentemente usata come metafora della vicenda umana in tutte le sue manifestazioni.

il Re

La nascita degli scacchi, per certo orientale, rimane tutt’oggi oscura: Cina, India, Persia, si disputano l’onore della sua invenzione, tuttavia molteplici indizi, e argomenti etimologici, forse decisivi, portano a ritenere che la sua culla sia stata l’antica India. Storicamente, le più antiche menzioni del gioco si trovano in tre poemetti persiani. Nel Wizarisn i Chatrang – di gran lunga il più importante – si narra che il Gran Re di tutte le Indie, per saggiare l’intelligenza e la sapienza dei regnanti persiani, inviò un Chatrang (termine pahlavico per indicare gli scacchi), fatto di sedici pezzi di rosso rubino e sedici pezzi di verde smeraldo, al re Cosroe “dall’anima immortale” (Cosroe Iº Nushirawan, 531-578 secondo molti, o Cosroe IIº Parwiz, 590-628 secondo altri).
Il testo continua raccontando che dopo tre giorni Wuzurgmihr, il saggio alla corte di Cosroe, riuscì a spiegare il Chatrang e le sue leggi.
Per la prima volta viene fornita la nomenclatura dei pezzi del gioco e la loro disposizione sulla scacchiera: “Il re (Shah) serve ad indicare i due capi supremi; al suo fianco il generale in capo (Farzin); l’elefante (Pil) serve ad indicare il comandante della guardia; il Cavallo (Asp) serve ad indicare il comandante della cavalleria; il Carro da Guerra (Rukh) a sinistra e a destra serve ad indicare le truppe scelte e i fanti (Piydah) indicano i reparti sul fronte della battaglia”.
I termini del poemetto persiano non hanno nessun riferimento etimologico nel pahlavi ma divengono chiari e significativi se si considerano derivati dal sanscrito; il nome stesso del gioco Chatrang altro non è se non la traduzione del termine sanscrito Caturanga. L’etimologia di Catur – quattro e – Anga – parti di un insieme – rimanda ai tradizionali quattro elementi nei quali era ordinata l’armata indiana di quei tempi.

la Regina

Quando gli arabi invasero la Persia (ca. nel 641 d.C.), vennero a conoscenza del gioco, dei pezzi usati per praticarlo, e dei loro nomi; trasformarono il termine pahlavico Chatrang in Shatranij poiché i suoni ch e g apparivano estranei alla lingua araba. Sulla scia dell’espansione della cultura e della dominazione araba, il gioco si diffuse attraverso l’Africa mediterranea nell’Europa meridionale. In prevalenza dal sud, ma anche per altre vie, gli scacchi entrarono in tutta l’Europa.
Reperti archeologici, testimoniano che gli scacchi erano già arrivati nel nostro continente nel X secolo e con il gioco gli europei conobbero i nomi arabi dei pezzi.
Shah (da cui Shah Mat, il re è morto o il re è perduto, onde per assonanza fonetica, scacco matto) fu tradotto in Re, inteso come pezzo supremo attorno al quale ruota tutto il gioco. Asp e Piydah furono semplicemente tradotti in Cavallo e Pedone, mentre l’Elefante, Pil, in arabo Fil e con l’articolo, come è d’uso nella loro lingua, al-Fil, divenne per similitudine fonetica alfino in italiano antico e poi Alfiere. Più complicate sono le interpretazioni e le trasformazioni che hanno subito i pezzi che noi oggi chiamiamo Torre e Donna.
Il Carro da Guerra in arabo persianizzato Rukh, per accostamento fonetico divenne in latino roccus, in italiano rocco (da cui il verbo arroccare, ancora oggi in uso) indi rocca e Torre.
L’equivalente di Donna, secondo recenti studi, sembra essere in pahlavi frazen, da cui l’arabo firzan o ferz, ovvero qualcosa di simile a un consigliere o a un ministro. Con la diffusione del gioco il nome e il significato del pezzo subirono profonde modificazioni, appunto perché era stato smarrito il significato originale della parola. In Occidente per similitudine fonetica firzan divenne, attraverso una fantasiosa etimologia popolare, ferza, fierge, vierge, avviando quella trasformazione verso Regina che è usuale in Europa. L’innovazione è di origine dotta e appare per la prima volta nel poemetto medievale pseudo-ovidiano De Vetula:
sex species saltus excernet sex quoque scaci, Miles et alphinus, roccus, rex, virgo, pedesque”.
Che può essere una virgo accanto al suo re, se non una regina?

All’inizio del primo millennio gli scacchi erano diffusi in quasi tutta l’Europa; notizie dei grandi giocatori arabi come as Suli, al Lajlaj, ar Razi, alì as Shatrangi circolavano ancora nel nostro continente. La loro fama fu così grande che divenne proverbiale: per secoli, quando si voleva magnificare l’abilità di un giocatore di scacchi si soleva dire “Tu giochi come as Suli”.
Il gioco degli scacchi, che almeno fino al Trecento non differì molto da quello arabo, le cui regole erano state integralmente importate, conobbe subito grande popolarità. Alla sua rapida diffusione concorsero in misura notevole gli autori delle storie dei Cavalieri della Tavola Rotonda; così gli scacchi vennero inseriti nelle “canzoni di gesta”, nella saga bretone del Re Artù, nelle storie dei paladini di Francia, nelle leggende religiose del Graal, con racconti fantastici di tradizione romanza. I trovadori cantano i cavalieri di Lancillotto che si cimentano con la bella castellana su una scacchiera i cui pezzi si muovono al tocco di un magico anello; chi vince se la sposa, diventa signore del castello e della scacchiera fatata.

Alfiere

Di particolare interesse sono i numerosi codici rinvenuti, per lo più scritti in latino, e meno frequentemente in volgare. Importanti dal punto di vista tecnico sono le raccolte note come Bonus Socius e Civis Bononiae che non riportano partite giocate, ma “partiti”. Ovvero qualcosa di simile agli attuali “finali” e “problemi”, nei quali uno dei due colori, muovendo per primo si impegnava a dare matto in un numero preciso di mosse, “né più né meno”. Questi testi circolarono incontrastati fino a tutto il Cinquecento e non si saprebbe spiegare la comparsa di un numero di valenti giocatori, senza una corrispondente fortuna del gioco presso i potenti.
Nella Rinascenza non vi fu Corte, almeno fra le più celebrate, che non annoverasse fra i suoi protetti qualche forte giocatore di scacchi. Del resto, che gli scacchi siano stati il passatempo intellettuale preferito dai Signori del Rinascimento è fatto ampiamente attestato; Baldassar Castiglione, nel suo Libro del Cortegiano così definì il gioco: ”gentile intertenimento ed ingegnoso”.

Il cavallo

Cavallo

Le vie dell’introduzione del gioco in Europa spiegano perché i primi grandi giocatori continentali furono quasi tutti dell’Europa meridionale. Il primo incunabolo, opera di Francesch Vicent, venne pubblicato a Valencia nel 1495, ma di esso vi è notizia solo attraverso la testimonianza di bibliofili poiché il testo non ci è mai pervenuto. La seconda opera a stampa – questa pervenutaci in pochi esemplari – fu scritta da Lucena, anch’egli spagnolo, nel 1497.
Nel 1512 apparve un terzo trattato del portoghese Damiano, che visse a lungo a Roma e infine il prete spagnolo Ruy Lopez de Segura, forse il più grande giocatore di scacchi del suo tempo, diede alla luce nel 1561 il suo raro trattato sugli scacchi.
In Italia ebbero fama Gio. Leonardo de Bona, originario di Cutro, in Calabria, detto “il Puttino” per la sua piccola statura, famoso in Napoli, Roma e Madrid ove, alla presenza di re Filippo II, sconfisse in un memorabile match Ruy Lopez; Paolo Boi, detto il “siracusano” dalla sua città di origine; Oratio Gianutio di Amantea, autore del primo originale libro di scacchi italiano; Giulio Cesare Polerio di Lanciano, detto l’ “Abruzzese” che ci lasciò una serie di rari documenti scacchistici, e soprattutto Gioacchino Greco di Celico in provincia di Cosenza, che dopo la sua breve vita, fu considerato una sorta di Campione del mondo di scacchi ante litteram.
Né possono essere dimenticati i grandi trattatisti del Seicento come Alessandro Salvio di Napoli, il dotto prete siciliano don Pietro Carrera, autori di importanti testi scacchistici.
Un periodo aureo per gli scacchi nel nostro Paese: declinando la fama dei teorici iberici, gli italiani si andavano affermando tra i più reputati giocatori del mondo e le scuole scacchistiche d’Italia attiravano appassionati da tutta Europa, almeno fino ai “tre grandi modenesi”: il magistrato Ercole del Rio, Giovan Battista Lolli e il canonico Domenico Ponziani, ultimi testimoni di una fama che ormai andava scomparendo. Dopo di loro, eccezion fatta per il maestro romano Serafino Dubois, fu il declino.

L’Ottocento fu il secolo che segnò il distacco dell’Italia dall’Europa: omologare o no le regole del gioco italiane a quelle internazionali? Fu una grande questione che contribuì ad isolare i nostri scacchisti dai loro colleghi europei. Oggi, ormai superata quella vicenda, gli scacchi sono insegnati nelle scuole e, sempre più spesso, sono oggetto di studi universitari.
Finito il tempo del gioco romantico, ebbe inizio quello scientifico – cosiddetto – perché gli scacchi sono in perpetua evoluzione, oggi come nel tempo andato. Ecco perché, preparati da lunghi studi teorici, scaltriti da una esperienza sovente ricchissima, i grandi campioni contemporanei raramente fanno affidamento su una combinazione immediatamente decisiva: l’intuito opera a lunga scadenza.
Ma chi sa vedere nelle sottili elucubrazioni dei campioni non solo le evoluzioni dei pezzi, ma anche le possibilità combinative che ad ogni mossa emergono e che vengono valutate in una sorta di astratta rappresentazione, troverà nel gioco moderno una logica e cerebrale bellezza, fredda ma affascinante.

Una storia di oltre 1500 anni non può essere, evidentemente, condensata in poche righe; questo rapido excursus – ci auguriamo – può forse dare una immagine di massima sulla quale, tuttavia, si potrà ritornare per maggiori approfondimenti. Perché sebbene divertimento nella sua essenza, arte e tecnica nella forma, addirittura scienza dell’impalcatura normativa, il gioco degli scacchi è sempre motivo di fiaba e di mistero.


Abbiamo preparato un piccolo percorso bibliografico con opere sugli scacchi possedute dalla Casanatense. Senza pretesa di essere completo, si offre come prima traccia per agevolare il lavoro di chi volesse affrontare e proseguire una ricerca su questo argomento presso di noi.

percorso bibliografico [file pdf 17kb]


Le immagini della Galleria appartengono invece all’edizione dell’Orlando Furioso pubblicata a Milano dai fratelli Treves nel 1899 con la prefazione di Carducci e le illustrazioni del grandissimo Gustave Doré.
L’accostamento del mondo ariostesco a quello degli scacchi può essere ardito ma non peregrino: re, regine, cavalli, torri, pedoni e battaglie affollano tanto le scacchiere che le terzine dell’Orlando Furioso e le bellissime illustrazioni che le ornano, strabordando, in questa edizione del sec. XIX del poema cavalleresco.
La Casanatense possiede molte edizioni dell’Orlando Furioso a partire dal sec. XVI, tutte di grandissimo pregio bibliografico.
Ma abbiamo scelto questa ottocentesca proprio per il carattere visionario dei disegni di Doré, che reinterpreta l’Orlando secondo i canoni del romanticismo, concedendosi inoltre l’assoluta libertà di un’invenzione perfettamente svincolata da intenti filologici.
In verità poi non ci sentiremmo di escludere che, nel paradiso della maga Alcina, tra gli ameni divertimenti e i giuochi con i quali passavano il tempo i giovani amanti (prima di essere trasformati in creature mostruose o vegetali), ci fossero anche gli scacchi.

Ludovico Ariosto Orlando Furioso con prefazione di Giosué Carducci illustrato da Gustavo Doré. Milano, Treves, [1899]
80 tavole e oltre cinquecento vignette