King Artur e gli altri
Il personaggio di re Artù rievoca immediatamente nel nostro immaginario la leggenda e quindi le storie nate intorno ai Cavalieri della Tavola Rotonda; nella realtà la sua figura storica di re d’Inghilterra e la sua figura letteraria di eroe cavalleresco hanno vita indipendente.
Non abbiamo dalle fonti notizie storiche di un re chiamato Artù prima che nella Historia Britonum, attribuita a Nennio – vissuto, pare, intorno al IX secolo – si narrasse di come un certo Artù abbia combattuto contro i Sassoni insieme ai re Bretoni.
Un suo predecessore, lo storico Gildas – che visse nel VI secolo – si è riferito forse ad Artù obliquamente: c’era tra i capi Bretoni qualcuno nominato o soprannominato l’Orso (Ursus), in celtico artos e di qui Artù. Del resto anche Nennio ricorda come Artù in latino diventi ursus horribilis.
La storicità dell’uomo può essere difficilmente posta in questione. Si può forse dire che egli fu agli occhi dei contemporanei in una posizione molto meno cospicua di quella a cui fu in seguito sollevato dalla vox populi del mito e della ballata. Il posto che Artù occupa nella leggenda celtica è comunque più facile da spiegare nell’ipotesi che egli sia realmente vissuto e che sia stato un grande campione del popolo bretone. Il fatto che un ciclo arturiano sia cresciuto composto in parte da eventi trasferiti da altri contesti non prova che il personaggio avesse carattere fittizio più di quanto simili favole lo provino di Alessandro, Aristotele, Achille o Rolando.
Artù proveniva probabilmente da una famiglia civilizzata che viveva in una regione dove la romanizzazione era relativamente ancora alta. Era stato insignito dalle autorità locali di uno speciale comando militare per merito: dux bellorum. Doveva infatti essere a capo di un’armata mobile che combatteva ovunque fosse richiesto cooperando con i re locali e le loro truppe.
Come nel modello romano del V secolo in questa armata si presume dovesse essere presente una supremazia dell’arma della cavalleria pesante – vestita di cotta di maglia – sulla fanteria.
Già nei primi 20 anni del V secolo del resto un qualunque count della Britannia comandava sei reggimenti di cavalleria su tre di fanteria, era cioè praticamente un generale di cavalleria.
In quel momento tra la popolazione indigena la cavalleria era inesistente: le milizie locali il cui compito principale era di difendere le proprie mura cittadine, potevano a malapena includere degli uomini a cavallo. I Sassoni invasori erano fanti che combattevano con le lance e indossavano una corazza ridotta al minimo o addirittura nessuna; impararono dai Bretoni a proteggersi con casacche di maglia e non diventarono mai cavalieri. Anche la loro disciplina tattica era elementare, sebbene il loro valore individuale e la loro forza fossero considerevoli.
Contro un tale nemico una piccola forza di comune cavalleria romana guidata in modo risoluto doveva risultare invincibile. Questo tipo di mentalità militare, data la sua origine romana, doveva essere ovvio per Artù. Sono congetture, ma basate sulla realtà dell’arte militare del V secolo e sono valorizzate dal fatto che la tradizione apparsa più tardi ruota intorno alla concezione di Artù come creatore di una banda di cavalieri.
Un paese quindi che affonda nella barbarie, dove le idee romane sono quasi scomparse; di contro l’emergere di un uomo abbastanza intelligente da capirle e abbastanza vigoroso da metterle in pratica riunendo intorno a sé un gruppo di amici e seguaci, armati secondo la tradizione della guerra civilizzata e che provano la loro invincibilità in una dozzina di campagne.
Dopo la vittoria finale il ruolo di Artù come campione dei Bretoni era terminato e trascorsero ventuno anni prima della battaglia di Camlan, nella quale egli si scontrò con Mordred e dove si dice che sia caduto. Mordred era proprio uno dei suoi cavalieri, il che suggerisce che in quegli anni di pace il dissenso era esploso nel gruppo stesso, che fu poi distrutto dalle divisioni interne.
La critica dell’800 (Chambers, Rhys, Loomis) si riferiva a Gildas e Nennio e sosteneva che Artù fosse una figura mitica e leggendaria, una specie di dio orso. La critica più recente invece (Morris, Goodrich, ecc.) include Artù nella storia e colloca il suo regno al confine tra la Scozia e l’Inghilterra: assunzione che la conoscenza attuale del Medioevo inglese ci può far ritenere veritiera.
Secondo questa teoria il re era venuto a salvare la Britannia alla caduta di Roma, subito dopo il ritiro dall’isola delle forze romane occupanti, tentando di fermare la diffusione dell’insediamento Anglosassone oltre la Northumbria e riuscendo così a conservare un regno Celtico nel Nord.
Qualunque sia la verità, Artù lasciò dietro di sé un nome imperituro e il popolo da lui salvato non poteva credere davvero alla sua morte: era l’ultimo dei Romani, la storia della Britannia romana finisce con lui; o forse con lui inizia la storia inglese.
Per quanto riguarda la nascita della figura letteraria di Artù, si deve aspettare il XII secolo: come in Francia la letteratura romanzesca è incentrata intorno alla saga di Carlomagno e Rolando, così in Inghilterra il fulcro del romanzo è la leggenda Arturiana.
Che il personaggio provenisse dalla Cornovaglia o dalla Scozia – come sostengono gli studiosi più recenti – la storia di Artù, di origini Celtiche, fu messa insieme in modo organico per la prima volta da Goffredo di Monmouth nella sua Historia Regum Britanniae (1135 ca.). L’opera, dedicata al figlio naturale del re Enrico I d’Inghilterra, era destinata ad un pubblico di corte che trascorreva la sua esistenza tra tornei e storie d’amore. La popolarità di questa opera fu ampia e immediata, se ne conservano moltissimi manoscritti e sappiamo che fu accettata quasi universalmente come una storia vera.
La storia di Goffredo fu tradotta da Wace – letterato anglonormanno alla corte di Enrico II Plantageneta – che ne fece una parafrasi nel primo XIII secolo, il Roman de Brut, dal nome dell’eroe troiano. Wace fu poi tradotto, sempre nel XIII secolo, in versi anglosassoni nel Brut da Layamon, che aggiunse del colore locale e sviluppò ulteriormente la storia.
Nella storia di Goffredo erano presenti Uther Pendragon, Merlino, Ginevra e Mordred.
Artù ne usciva come grande eroe e protagonista. I cavalieri erano i fedeli vassalli di un re feudale, non ancora personificazioni di virtù cortesi. Mancavano del tutto molti dettagli essenziali alla più tarda letteratura arturiana: la Tavola Rotonda e il Santo Graal, Lancillotto e Parsifal.
Ma il ciclo bretone li aggiungerà a poco a poco con i Lais di Maria di Francia, i romanzi di Chrétien de Troyes, i racconti gallesi detti Mabinongion, Thomas e Béroul, che allargarono il successo della cosiddetta “materia di Bretagna” perpetuandone il trionfo ma trasportando i suoi eroi dai campi di battaglia alla vita mondana e sentimentale dei tornei.
Erano stati i poeti provenzali a diffondere quegli ideali della cavalleria e dell’amore cortese che permearono la letteratura dei tempi posteriori a Goffredo. In una visione che non implicava solo il prevalere dell’istituto della cavalleria, che in realtà decadde rapidamente, ma anche di ciò che ad essa faceva contorno: il rispetto e l’omaggio per le donne, la cortesia, le buone maniere. Era una tradizione d’amore quella che stava alle radici dell’ideale cavalleresco. Al tramonto dell’età eroica, si era passati al codice di cortesia, all’amore, al sentimento.
L’editoriale è tratto dall’articolo di Flavia Onofri pubblicato con il titolo Artù nella storia e nella letteratura nel catalogo della mostra Cavalleria e ordini cavallereschi in Casanatense allestita in Biblioteca nel 1995 [p. 338-339]
Per saperne di più:
CATALOGO – Cavalleria e ordini cavallereschi in Casanatense. Roma, Biblioteca Casanatense, 1995