Il Giulio Cesare casanatense (Ms. 453) di Andrea Cappa
L’attacco è di quelli che non si dimenticano, un incipit memorabile, che chiunque abbia studiato un po’ di latino riscopre sedimentato nei bassifondi della memoria, a volte quasi inconsapevolmente, parole scisse ormai da un passato di studi, al di là di grammatica e letteratura, un’eco lontana che è patrimonio comune, Gallia est omnis divisa …
E dopo questo breve inizio si spalancano ad un tratto alla mente sterminate abetaie, valli umide e montagne nebbiose, battaglie epiche, feroci popolazioni barbariche, i Celti, o Galli, i Germani, i Britanni, la compostezza coraggiosa delle falangi romane, l’eroismo della decima legione, e Lutetia e Vercingetorige e poi lui, generale, uomo politico e storico, lo scrittore dell’antichità forse più amato, per quel suo stile scarno ed essenziale, per quelle narrazioni fedeli e precise, per quel mondo di brume nordiche, scontri sanguinosi e strategie militari che ancora oggi ci appassionano. Giulio Cesare, il classico per eccellenza, fautore e narratore dei trionfi di Roma, chi non lo ha mai letto?
Il manoscritto 453 della Biblioteca Casanatense è uno dei più preziosi fra i codici che contengono il testo di Cesare, uno splendido volume umanistico di lusso risalente alla seconda metà del ‘400, più precisamente al 1470 circa, e prodotto a Roma nell’ambiente di artisti che gravitava intorno alla corte papale ed alla nascente Biblioteca Vaticana.
La Roma di quegli anni, sotto i pontificati di Paolo II e poi di Sisto IV, era una vera e propria “officina” di Umanesimo; vi teneva le sue lezioni Pomponio Leto, fondatore dell’Accademia romana, gli studi classici fervevano, la passione antiquaria e la ricerca archeologica fornivano spunti continui a pittori e miniatori, che potevano restituire nelle loro opere le suggestioni dell’antichità.
La comparsa di elementi classicheggianti era un fatto relativamente nuovo, legato essenzialmente al lavoro di Andrea Mantegna nel suo periodo padovano, e veneto in generale, verso la metà del secolo, quando opere ricche di citazioni dall’antico come gli affreschi alla Cappella Ovetari a Padova e la pala di San Zeno a Verona avevano fatto parlare di una “nuova pittura”, che poi influenzò anche la miniatura cosiddetta “all’antica”.
L’ambiente artistico veneto, sulla scia di Mantegna e di Francesco Squarcione, attorno alla cui bottega si formarono in molti, fu promotore di una vera e propria rivoluzione di gusto, che impose lo stile classicheggiante soppiantando moduli decorativi a volte ancora di stampo trecentesco e la moda fiorentineggiante dei “bianchi girari”.
Sotto papa Paolo II (1464-1471), il veneziano Pietro Barbo, si registrò una vera e propria migrazione di artisti veneti verso Roma, e fra questi i padovani Bartolomeo Sanvito e Gaspare, rispettivamente copista e miniatore del manoscritto in questione; ad essi si deve in Roma una splendida produzione di codici miniati “all’antica”, per lo più conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana.
Pur privo di colophon e di qualsiasi nota chiarificatrice, il Giulio Cesare è stato attribuito già dagli anni ’50 a tale ambiente, del quale tuttavia si sapeva ancora poco, giungendo solo in seguito, grazie a Tammaro De Marinis, ad individuare nell’elegantissima umanistica corsiva la mano inconfondibile di Bartolomeo Sanvito. Oggi alla sua attività di calligrafo si riconducono oltre 100 codici, in cui compare come copista, come rubricatore, addirittura come miniatore in alcuni casi, in un arco temporale di oltre 50 anni, delineando una produzione ricchissima dal punto di vista qualitativo e quantitativo. In molti sostengono che alla sua grafia si sia ispirato Aldo Manuzio per la creazione del carattere “italico”.
Più complessa l’attribuzione della miniatura, da riferirsi secondo alcuni al copista stesso, secondo altri a Gaspare, anche se un’analisi stilistica comparata porta ad optare pressochè definitivamente per la seconda tesi, in virtù dell’altissima qualità artistica.
L’apparato decorativo, infatti, sobrio ma al tempo stesso raffinatissimo, si compone di un’antiporta purpurea, di un frontespizio architettonico, e di 14 grandi Litterae Mantinianae poste all’inizio di ogni singolo libro dei Commentarii, con “perfetta simbiosi di testo e ornamentazione”, tanto da rappresentare “un vero e proprio paradigma della meditazione umanistica sulle forme e sullo spirito della romanità” .
L’antiporta purpurea, dotta citazione dall’antico, è un esempio tipico del modo in cui il Sanvito usa le pergamene tinte, limitandosi all’inserto anche di un solo foglio: su fondo violaceo è tracciato a sanguigna e inchostro nero, con lumeggiature auree, il trionfo di Cesare, con una sfilata di carri che oltrepassa un grande arco e segue il corteo di soldati e di prigionieri. Tra questi ultimi e i cavalli compaiono delle vittorie, mentre sullo sfondo appare una Roma quasi irreale, dall’aspetto forse più rinascimentale che antico. Le immagini trionfali sono mutuate dall’arco di Tito e da quello di Costantino. Il disegno suggerisce un’idea d’incompiutezza, nel mancato ripasso a inchiostro della metà sinistra, e può far pensare che la decorazione non sia stata portata a termine, dubbio che può trovare conferma in alcuni spazi rimasti bianchi nella parte inferiore del frontespizio.
Qui un’imponente edicola classicheggiante è poggiata su di un’insula erbosa e funge da cornice al testo: alla base dell’edicola uno zoccolo azzurro riproduce, con la tecnica delle lumeggiature auree su fondo monocromo, una scena di battaglia che richiama alla memoria i bassorilievi delle colonne trionfali.
Ai due lati dello zoccolo una doppia coppia di leoni alati dorati, sempre su fondo azzurro, sorregge uno spazio bianco destinato ad ospitare lo stemma del committente, che non è stato mai dipinto. Incompleta, e rimasta bianca, anche una facciata del basamento, proprio a fianco della coppia di leoni di destra. Al di sopra di essi, ai lati del testo, immaginato su di un foglio perfettamente rettangolare, compare una doppia coppia di putti alati su di un fondo rosso intenso, in mezzo ad elmi e corazze.
Nel riquadro ancora superiore dell’edicola, su fondo verde, in entrambi i lati, un finto bassorilievo di armi, scudi, elmi, spolia opima, con una purtroppo evidente abrasione nella zona di sinistra. Subito sopra, sempre ai lati del foglio, un coloratissimo e fantasioso porticato, dove i pilastri, su fondo violaceo, hanno basamento e capitello in oro. La parte culminante dell’edicola incastona un piccolo fregio, che si dispiega sempre ai lati del foglio centrale, in cui è rappresentata una doppia coppia di leoni alati, di piccola dimensione, divisi da una palmetta.
Sopra l’edicola, infine, putti e fauni avvolti in panneggi gialli e blu giocano, mentre un ultimo elemento architettonico a emiciclo emerge da dietro il testo con immagini di delfini a code intrecciate. In primo piano, a campeggiare nella pagina come un’epigrafe, il testo, con le indicazioni di autore e titolo, e con l’incipit dei Commentarii de bello Gallico.
Si tratta di 17 righe di scrittura vergata in splendide capitali epigrafiche, ed in ciascuna di esse una lettera in foglia d’oro si alterna ad un’altra di diverso colore, uno differerente per ogni riga, nell’ordine di blu, rosa, verde pallido, viola. L’effetto chiaroscurale, la corretta disposizione di pieni e filetti, l’uso di eleganti grazie ornamentali rivela una profonda assimilazione della lezione di Leon Battista Alberti e della cerchia di umanisti impegnati nello studio dell’epigrafia antica.
Dalla quarta riga, fino all’ottava, la metà dello specchio scrittorio è occupata dalla grande “G” Mantiniana di colore amaranto, su placchetta quadrangolare, raffigurante Cesare che arringa i soldati, con uno sfondo di due edifici monumentali affrontati; un clipeo quadrilobato bicolore glicine-bronzo pende dalla lettera medesima, cui è agganciato tramite una sorta di nastro, e incastona una testa di Medusa. Varie le tonalità cromatiche soprattutto nelle vesti e negli scudi dei soldati, in toni caldi, e un Giulio Cesare rappresentato giovanissimo in un mantello giallo. Forte il carattere tridimensionale della lettera, che sembra sporgere dal fondo grazie all’illusione prospettica, resa più potente dall’effetto chiaroscurale ottenuto tramite le lumeggiature in oro.
Alla grande Mantiniana dell’incipit ne seguono altre quattordici, che, accompagnate da alcune righe di scrittura in lettere capitali ad inchiostri colorati ed oro, rappresentano l’unico ulteriore elemento ornamentale del manoscritto. Infatti, nonostante lo splendore delle decorazioni, il vero protagonista è il testo dell’opera tràdita, poiché, secondo una tradizione che affonda le sue radici nel mondo medievale, non si poteva permettere alla cultura delle immagini di prevalere sulla cultura scritta.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
G. Baldissin Molli, G. Canova Mariani, F. Toniolo (a cura di), Parole dipinte: la Miniatura a Padova dal Medioevo al Settecento, Modena, Panini, 1999.
A. Cappa, Umanesimo, passione antiquaria e produzione libraria fra Padova e Roma a metà ‘400: il Giulio Cesare casanatense, in “Schol(i)a”, 2 (2004)., pp. 54-105
S. De Kunert, Un Padovano ignoto ed un suo Memoriale de’ primi anni del cinquecento (1505-1511) con cenni su due codici miniati, in “Bollettino del Museo Civico di Padova”, 10 (1907), pp. 1-16 e 74-63.
T. De Marinis, Nota per Bartolomeo Sanvito calligrafo del Quattrocento, in Mélanges Eugène Tisserant, IV, (Studi e testi, 234), Città del Vaticano, 1964, pp. 185-189.
A. De Nicolò Salmazo, Il rinnovamento del libro a Padova nell’età dell’Umanesimo, in “Padova e il suo territorio”, 14 (1999), pp. 36-42.
S. Maddalo, “Quasi praeclarissima supellectile”. Corte papale e libro miniato nella Roma di primo Rinascimento, in “Studi Romani”, 42 (1994), pp. 16-32.
G. Mariani Canova, La porpora nei manoscritti rinascimentali e l’attività di Bartolomeo Sanvito, in O. Longo (a cura di), La porpora. Realtà e immaginario di un colore simbolico. Atti del Convegno di Studio (Venezia 24 e 25 ottobre 1996), Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, 1998, pp. 339- 371.
A. Petrucci ( a cura di), Libri, scrittura e pubblico nel Rinascimento. Guida storica e critica, Bari, Laterza, 1979 .
J. Ruysschaert, Il copista Bartolomeo Sanvito miniatore padovano a Roma dal 1469 al 1501, in “Archivio della Società Romana di Storia Patria”, 109 (1986), pp. 37-48.
Vedere i Classici. L’illustrazione libraria dei testi antichi dall’età romana al tardo medioevo, Roma, Fratelli Palombi, 1996.