Le spedizioni crociate di Anna Alloro

Se è vero che la Crociata, considerata come evento storico concatenato ad altri eventi storici, si presenta come la prosecuzione della guerra all’Islam e si inquadra nel secolare antagonismo che caratterizza le due più forti religioni monoteiste del bacino del mediterraneo; è altrettanto vero che essa va letta anche come un fatto esclusivamente e puramente religioso, idea e attuazione del papa Urbano II che, formatosi a Cluny, ha ereditato il grandioso programma di rinnovamento del predecessore Gregorio VII.
La Crociata fu bandita all’insegna dell’universalità e della spiritualità: a Clermont, il 27 novembre del 1095, alle folle di ecclesiastici e laici radunate in campo aperto, Urbano rivolge il suo appello per la liberazione del Santo Sepolcro dagli infedeli a tutti i cristiani indistintamente. In Europa non sono ancora sorti stati nazionali ad innalzare barriere politiche che impediscano alla cristianità di stringersi attorno al papa e alla sua idea e c’è una classe militare pronta a partire, la cavalleria. Senza la cavalleria, la Crociata che fu fondamentalmente impresa di poche decine di migliaia di uomini, sarebbe stata impossibile.

La “Cavalleria” ha evocato spesso l’idea di una categoria sovratemporale, metastorica, se non addirittura consegnata all’eternità del genere umano. Essa è invece un fatto storico ben documentabile: come fenomeno sociale, politico e militare nasce verso la fine del X secolo e si può considerare uno degli esiti cui perviene la struttura feudale europea dopo lo smembramento dello stato carolingio; e pur presentandosi con un peculiare carattere iniziatico viene in seguito istituzionalizzata, dalla Chiesa prima e dal potere laico più tardi.

La vita in Europa non offre grandi prospettive ai cavalieri. La maggior parte di loro ha appena di che vivere; l’equipaggiamento consiste in una lancia, un elmo di ferro, uno scudo e un vestito di tela; solo i più ricchi possono permettersi una cotta di ferro. Per i giovani, in genere di scarsa cultura, è essenziale saper menare le mani al momento opportuno; sempre a cavallo da quando riescono a montare in sella, non fanno altro che battersi: nei tornei, in piccole guerre private, in vendette familiari. Violenti, grossolani, superstiziosi, essi sono però ottimi combattenti e quando la grande avventura della crociata è ancora lontana, il cavaliere è un uomo che lotta e dà mostra di coraggio in difesa dell’onore o della fede, secondo i canoni della diffusa morale cavalleresca.

La Chiesa uscita da Cluny arruola i cavalieri nei suoi ranghi; indirizzandone le energie li piega ai suoi fini e fornisce loro un codice etico di comportamento: prende corpo così una vera e propria etica cavalleresca.
Nell’atmosfera di profonda spiritualità religiosa che pervade gli animi in quell’epoca, non è raro il caso di milites che, accettando il programma riformatore di Gregorio VII, spingano la loro adesione, personale o di gruppo, fino alla serena accettazione del martirio o per lo meno informino la loro vita alla pratica volontaria della povertà.
Che questa fosse la direzione imboccata dalla Chiesa, lo dimostrò Urbano II nel recepire appieno e nel portare avanti il programma gregoriano. Nel bandire la crociata, il papa infatti traccia un quadro dei compiti del miles che vanno proprio nella direzione di una “via cavalleresca alla santità”, della redenzione conquistata attraverso il martirio per mano dell’infedele: è un programma di vita spesa al servizio di Dio, della Chiesa e deisuoi figli prediletti, i poveri e i deboli.

E tuttavia, proprio l’integrazione dei milites nel corpo della Chiesa rinnovata dalla riforma introduce nella vita e nella riflessione ecclesiastica una profonda lacerazione. Questa scelta infatti pone alla Chiesa il drammatico problema della giustificazione della guerra, addirittura della “santificazione” di certa guerra: nasce in area cristiana l’idea della “guerra santa”, per quanto abissale sia la distanza che separa questa dalla guerra santa islamica. La “guerra santa” cristiana, sintesi di avventura cavalleresca e pellegrinaggio penitenziale, produce l’esaltazione collettiva dello spirito religioso, e riesce davvero a trasformare i cavalieri che vi prendono parte: spesso sleali, crapuloni e violenti in patria, nella lotta all’infedele mai vengono meno alla parola data e l’homagium corrisponde all’offerta di tutta la loro persona, corpo e anima, al papa e alla causa.

I cavalieri crociati, con i loro elmi a celata abbassata, ricoperti dalla testa ai piedi di pesanti armature, sono certo meglio equipaggiati dei loro avversari orientali. Questa cavalleria pesante, addestrata per caricare compatta, con lancia in resta, uomo-cavallo-armatura formanti un unico, inarrestabile proiettile, era già famosa: si diceva che un solo cavaliere al galoppo avrebbe sfondato le mura di Babilonia. L’imperatore Alessio non nasconde meraviglia e timore alla vista dei cavalieri fiamminghi che attraversano la sua città. E la leggenda dell’imbattibilità e del coraggio dei cavalieri crociati si manifesta nelle innumerevoli prove di Nicea, di Antiochia e infine sotto le mura di Gerusalemme.

A Gerusalemme le genti avevano sempre conosciuto i sentimenti che la loro città suscitava. Gli ebrei l’avevano nel cuore, i musulmani la legavano ai profeti che avevano preceduto Maometto, i cristiani la veneravano come il luogo dove il Cristo era morto e, secondo il loro credo, risorto. La terra ideale di queste tre genti, il cui padre, secondo le Scritture di tutte e tre, fu uno solo, Abramo, era insomma ritenuta il centro del mondo.

I cavalieri e i fanti crociati, arrivati davanti a Gerusalemme e ai suoi difensori, che precedentemente avevano fatto scavare intorno alla città profondi fossati, formavano uno degli apparati bellici più poderosi della storia di quei primi anni del secondo millennio. I fanti crociati, nucleo della guerra d’assedio, rappresentavano i sette ottavi di quell’esercito: essi combattevano con lance e scuri, ma più validamente con le balestre, le cui frecce lanciate da scatti meccanici, trapassavano agevolmente scudi e armature. Colpivano a grande distanza: la tecnica dell’esercito crociato era così perfezionata che ad ogni lancio di duecento balestrieri seguiva il veloce dispiegamento di cinquecento scudieri i quali, schierandosi a difesa, permettevano il lento ricaricamento delle balestre. E se la fantasia ci lascia immaginare la scena, doveva essere davvero impressionante lo spettacolo al quale gli assediati assistevano: partivano nugoli di frecce scagliate da grande distanza; alla risposta nemica, lenta e difficoltosa a causa dello spazio, corrispondeva la selva di scudi che subito si chiudeva a protezione. E quando la sera del 14 luglio 1099 Raimondo di Tolosa diede l’ordine che avanzasse la prima torre d’assalto verso le mura di Gerusalemme, non solo un diluvio di frecce e di pietre investì gli assalitori: si parlò anche del lancio di una sorta di primitivo napalm, il “fuoco greco”, come lo chiamarono i crociati.
Altri tentativi erano stati respinti. Insieme alle torri e agli arieti, l’attacco portato con l’ausilio delle grandi catapulte, dei mangani e delle baliste, potè alla fine più del disperato coraggio dei difensori. Si spargevano, insomma, ancora come sulle prime vie che la crociata attraversò, torrenti di sangue in nome del Dio dell’amore e della pace di cui si stava conquistando il Sepolcro. Il massacro di musulmani e giudei che seguì alla presa della città fu terribile se è vero quello che le cronache del tempo riportano: i cavalli dei guerrieri cristiani che percorsero la città vinta affondavano nel sangue fino alle ginocchia.

La conquista di Gerusalemme, di fatto, chiude la prima spedizione in Terrasanta, la Crociata per eccellenza. Tenuta e governata per meno di 100 anni, la città santa fu per sempre strappata ai cristiani nel 1187, da Saladino.