[di Mario Fregoni]
estratto dell’articolo omonimo del professor Mario Fregoni ordinario di Viticoltura all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, pubblicato nel catalogo della Mostra Il vino tra sacro e profano [P. 279-284] allestita in Casanatense nel 1999.
Per millenni e per centinaia di secoli l’origine delle bollicine del vino fu considerata misteriosa. Un’idea dello stato delle conoscenze si può desumere dalle affermazioni del Bacci, medico del Papa, autore di un’opera di 7 libri in latino, che nessun Paese viticolo al mondo possiede oltre all’Italia, dal titolo De naturali vinorum historia de vinis Italiae (Roma, 1596). Descrivendo le caratteristiche del vino Albano sottolinea: “Il fatto che le bollicine emesse da questo tipo di vino siano molto vivaci, alcuni giovanissimi scrittori lo attribuiscono ad un caso fortuito», ossia alla chiusura della botte che conservava i “fumi” del vino. Il Bacci invece pensava «che questi fumi spontanei nei vini generosi o sono composti della essenza stessa e della natura del vino, o sono senza dubbio caratteristiche particolari della struttura del vino».
Successivamente si pensò che si trattasse di fenomeni chimici, gli stessi che producevano anche l’alcol. Fu Pasteur (1822-1895), con le sue ricerche sui meccanismi fermentativi, a chiarire che le bollicine provengono dalla fermentazione operata dai lieviti, che trasformano gli zuccheri in alcol ed anidride carbonica, gas – quest’ultimo – che emergendo dal vino dà le bollicine.
I vini più antichi con le bollicine (oggi si chiamerebbero frizzanti) provenivano da una sola fermentazione spontanea o controllata degli zuccheri di mosti o vini dolci, svolta nelle anfore di terracotta chiuse ermeticamente. Questa tecnica fu utilizzata per molti secoli.
E’ invece di questi ultimi secoli l’ottenimento di vini frizzanti e spumanti programmati, ottenuti con due fermentazioni, di cui la seconda (rifermentazione) avente lo scopo di produrre le bollicine. L’introduzione è più che sufficiente per stimolare alcune domande: chi ha scoperto il fenomeno della spumantizzazione? Quando? Come la attuavano gli antichi? Con che cosa?
Senza contare che il Libro dei Salmi (circa 1000 a.C.) pone una coppa di spumante nelle mani di Dio, si rammenta che il nostro poeta Orazio ha definito Omero il vinosus Homerus per sottolineare i numerosi e puntuali riferimenti alla vite ed al vino presenti nelle sue opere, risalenti circa al IX sec. a. C. Omero è sicuramente autore degno di fede e quando il grande vate greco parla dello scudo di Achille (scolpito da Vulcano), descrive un’aratura in cui i contadini erano rifocillati da “un uomo che giva in volta, e lor ponea nelle man un nappo spumante di dolcissimo bacco” (Iliade, XVIII libro). Noi non possiamo credere si trattasse di una semplice espressione poetica, per la precisione di Omero e per la semplice ragione che in natura il vino ha sempre prodotto bollicine anche senza la provocazione dell’uomo. Tuttavia in epoca romana le citazioni sono più ampie e si devono a Virgilio, Properzio, Lucano e Columella. […].
Da questi sacri testi risulta chiaro che lo spumante era già prodotto al tempo dei Romani, certo non con le tecniche attuali, ma con le rifermentazioni di vini dolci nei recipienti di allora (anfore di terracotta, ecc.), oppure con l’aggiunta di uva appassita o di mosto dolce a vini base già fermentati. Per individuare questi vini i romani usavano i termini saliens, titillans, spumans, spumescens che indicano chiaramente l’uscita delle bollicine dal vino, il frizzante e lo spumante.
Al tempo dei romani i vini con le bollicine venivano altresì denominati aigleucos ed aci-natici. I primi erano prodotti partendo dal mosto, la cui fermentazione, creatrice delle bollicine, veniva impedita o meglio ritardata immergendo le anfore in acque fredde, al fine di avere vino frizzante (allora detto spumante) per più lungo tempo. A Pompei è stata scoperta una cantina avente un cunicolo attraversato in continuazione da acqua fredda, nella quale venivano posti i dolium con il mosto da spumantizzare lentamente. La tecnica che si adotta oggi per la produzione del Moscato dell’OltrePo Pavese e dell’Asti spumante era quindi già applicata dai romani; attualmente si conserva il mosto in frigorifero – anche per mesi – per evitare che fermentando perda la sua freschezza aromatica di fruttato e si fa fermentare circa un paio di mesi prima dell’immissione al consumo.
L’acinatico era invece prodotto con mosto ottenuto da uve appassite. Questo veniva usato da solo oppure serviva per la rifermentazione di altri vini tranquilli (ossia di vini privi di zuccheri e quindi di bollicine). E’ il caso della spumantizzazione del Falernum con uve passite della varietà Meroe (citato da Lucano). L’acinazio è citato da Ulpiano nel 100° libro del De Legibus e soprattutto da Cassiodoro (c. 490-585 d.C.) che ben conosceva gli acinatici del Veronese (gli attuali Recioto ed Amarone) ed il “Torchiato di Fregona” (passito del trevigiano).
MEDIOEVO, RINASCIMENTO, RISORGIMENTO
Nel “buio medioevo” si riscontra una citazione dei vini con le bollicine degli inizi del 1100 della famosa Scuola Salernitana, ampiamente nota per la sua formazione “scientifica” medica. Nel Regimen Sanitatis, si consiglia un moderato consumo di vini frizzanti. Nella stessa epoca e successivamente vennero citati i frizzanti della Toscana, delle zone di Montecarlo e Pescia, e quelli francesi dell’abbazia benedettina di S. Ilaire.
Si ritiene che il “Governo toscano” sia nato nei primi secoli dopo il Mille e, come è noto, consisteva nel ringiovanire il vino secco facendolo rifermentare con mosto ottenuto da uve passite; inizialmente si fecero appassire o cuocere uve di Lambrusca (Vitis silvestris) e successivamente uve di Vitis vinifera (Sangiovese, Trebbiano toscano, Malvasia lunga del Chianti), utilizzate anche per elaborare i “Vin Santi”.
Il Papa più enofilo di tutti i tempi fu Paolo III Farnese (1468-1549), i gusti amplissimi del quale furono descritti dal suo bottigliere, Sante Lancerio (1559). Questo Papa conosceva tutti i vini italiani, tra i quali il Razzese che sua Santità prendeva per scacciare i freddi dell’inverno, ma anche quelli tradizionalmente frizzanti di Castell’Arquato (Piacenza).
Nel Rinascimento si continuò a mantenere il gas nelle botti cercando di chiuderle il più possibile e di tenerle a bassa temperatura durante la fermentazione. Per ottenere la rifermentazione si poneva il vino sulle vinacce (bucce) fresche, oppure si “tagliava” il vino con il mosto nuovo, oppure si faceva appassire l’uva e dalla sua pigiatura differita si otteneva un mosto molto zuccherino, capace di fare rifermentare il vino giovane o vecchio. In tal maniera si ottenevano vini con le bollicine in tutta Italia ed in Corsica.
Il Bacci sostenne che l’ Acinazio può essere assimilato al Retornato e al Razzese. L’Acinazio veniva ottenuto da mosto che stillava spontaneamente da uve passite prima della loro spremitura (vino della goccia), ma non si può escludere che un mosto così ricco di zuccheri desse origine ad un vino frizzante. Fra i nomi medioevali utilizzati per i frizzanti si rammentano quelli di mordaci, piccanti, raspanti e razzenti.
In merito al Razzese di Monterosso (Cinque Terre), il Bacci ha sostenuto che i vini “scintillano blandamente nei bicchieri”. Il Razzese veniva travasato, dopo la prima fermentazione, “in vasi più piccoli e lo affidano al mare e dicono che con il moto delle onde si perfeziona”. Il Bacci sempre discorrendo di Acinatium (antico) o Razzese (ligure) afferma che “dai racemi e dagli acini fatti bollire col mosto, questi vini acquistano una gradevolezza, un non so che di “frizzante” che li rende piacevoli al gusto, un nitore aureo o di gemma assieme alla purezza della sostanza, tali che si conservano incorrotti a lungo”. L’autore in parola ricorda che nel veronese si produceva molto vino rosso Acinatium o Acinazio, “che dà al palato una gradevole sensazione “pizzicante”, acquistata nella bollitura con quegli acini”.
Presso Desenzano il Bacci segnala Vernacce che fanno uscire di senno. “E’ un vino che dà a chi lo gusta una simpatica sensazione di frizzante”. Tra i Trebulani (Trebbiani) ne indica uno vigoroso simile “al Cretico, dorato nella sostanza, limpido, spumeggiante di bollicine, e che si conserva per tre anni”. Il Bacci ha indifferentemente usato i termini “frizzante” e “spumeggiante” per indicare i vini che avevano “preso la spuma” in modo spontaneo o provocato.
Sempre secondo Bacci, a Velletri con la cottura si usava ridurre l’uva in diversa misura (ad es.: meno per quella di collina e più per quella di pianura) e poi aggiungere all’uva cotta una decima parte di sapa (vino ridotto ad un terzo con l’ebollizione) ancora in fermentazione. Richiama molto la tecnica della cuvée degli spumanti. In merito al vino di Monterano il Bacci segnala che “fa lacrimare gli occhi di coloro che lo bevono, salendo con una fresca esalazione mentre lo si versa nel calice ed anche mentre lo si beve”; ovviamente l’esalazione era data dalle bollicine di CO2.
All’epoca del Bacci altri medici si occuparono di frizzanti, quali Fracastoro e Pisanelli (favorevoli al consumo) e Conforto (contrario ai frizzanti).
Fu sempre nel Rinascimento che si usò il vocabolo ispumante per indicare i vini con le bollicine. In particolare Francesco Redi (1626-1698) nel suo Bacco in Toscana esaltò il Moscadello di Montalcino.
Alla seconda metà del `600 ed ai primi del `700 appartiene una testimonianza scritta veramente eccezionale per l’Italia, vale a dire l’aureo poemetto (in latino) di Padre Ro-dolfo Acquaviva (1658-1729), gesuita che resse il collegio dell’ordine sito a Montepul-ciano. Il poemetto, dal titolo Rubri apud Politianos Vini confectio stylo Virgiliano descripta, tratta dell’arte di elaborare il vino presso i Poliziani, cioé i viticoltori di Montepulciano (Siena). Il poemetto di P. Rodolfo viene paragonato a quello di un altro illustre scienziato, vale a dire Francesco Redi, ma nell’opera di P. Rodolfo si ritrovano tracce dell’influenza dantesca nel concetto secondo cui il sole si fa umore della vite, mentre essa si differenzia dall’opera di Galileo, nella quale si riferisce degli influssi lunari sul vino (Camporesi, 1988).
Ma veniamo al contenuto “scientifico” del poemetto di P. Rodolfo. Egli tratta della vendemmia e consiglia la selezione dei grappoli migliori, nonché la cimatura dei grappoli prima della pigiatura: “solleva paziente i grappoli, a uno a uno, con la mano sinistra e tagliane la punta” od anche “dal mezzo in giù”. Egli aggiunge il motivo: “tali chicchi non sanno maturarsi abbastanza e tingersi nelle fibre del giusto colore”; sono cioé bacche malmature e rossastre (povere di colore). Queste pratiche non sono novità, ma si stanno perdendo, anche se appartengono ai piccoli ma grandi segreti per fare dell’ottimo vino. Così come quello, sempre descritto da P. Acquaviva, di lasciare l’uva ammucchiata per sei giorni prima di pigiarla: “non si rovesci nel tino tutta l’uva in un giorno”. La pratica verrà successivamente perfezionata con la macerazione carbonica del Beaujolais, altra tecnica conosciuta da tempo in Italia.
In seguito il poemetto descrive minuziosamente la pigiatura dell’uva ed il deflusso del mosto dal foro di fondo del tino. […].
Quello che stupisce è la coincidenza dell’epoca di vita di P. Rodolfo Acquaviva con quella del benedettino Dom Perignon (leggendario frate dell’abbazia di Hautvillers, al quale, in assenza di documenti, sono state assegnate le date di nascita e di morte del Re Sole Luigi XIV, vale a dire 1638-1715), che in Champagne ha perfezionato la rifermentazione in bottiglia per l’elaborazione del mitico ed omonimo spumante francese.
Si dirà che l’una (rifermentazione) si realizzava nel tino con mosto concentrato a caldo e l’altra in bottiglia, ma entrambe si ottenevano sempre con un mosto dolce, perché si deve rammentare che Dom Perignon non ha mai usato lo zucchero nel liqueur de tirage. Il saccarosio di canna era allora molto raro e costoso.
Fu Napoleone III (1808-1870) che istituì un premio per l’estrazione dello zucchero dalla barbabietola. Per la storia, Dom Perignon nel primo esperimento, collocato nel 1670, pare abbia usato uno sciroppo zuccherino (mosto?) ai fiori di pesco. Comunque, sia P. Rodolfo che Dom Perignon non hanno inventato alcunché di tecnologicamente importante, ma hanno solo adattato o perfezionato una metodologia già conosciuta all’epoca dei romani. Tuttavia, per la contemporaneità dei due illustri “padri” enoici della Chiesa, si può senz’altro adottare P. Rodolfo come il Dom Perignon italiano. […]
CONCLUSIONI
Il piacere delle bollicine è, pertanto, millenario e solo recentemente si è scientificamente chiarita la loro influenza positiva sull’assorbimento dell’alcol, sulla digestione e sull’apprezzamento gustativo degli alimenti, a causa dei legami che si creano con la saliva; va inoltre aggiunto l’effetto euforizzante tipico degli spumanti cercato dall’uomo ancor prima della scoperta del vino, attraverso bevande provenienti dalla fermentazione della linfa di palma, betulla, frassino da manna, ecc…
L’excursus storico dimostra chiaramente che gli antichi romani consumavano i vini con le bollicine, dapprima come frizzanti spontanei e successivamente come frizzanti prodotti con l’aggiunta al vino secco di mosti od altri prodotti zuccherini. I romani si devono considerare i veri inventori della “rifermentazione” programmata, che nel corso dei secoli successivi è stata perfezionata, sino all’uso della rifermentazione in bottiglia (perfezionata in Champagne ma già usata nei dolium romani) ed infine in autoclave.
Sotto il profilo storico possiamo affermare che l’Italia ha dato un grande contributo alla scoperta del principio della rifermentazione, che rappresenta la base produttiva degli spumanti “programmati” moderni. L’antica documentazione latina scritta esistente è inconfutabile, mentre i Francesi, pur avendo il merito di avere prodotto lo Champagne (superando i “maestri italiani”) con la rifermentazione in bottiglia resistente all’alta pressione, in fatto di documenti scritti sono alquanto sprovvisti e la stessa storia di Don Perignon rientra nelle leggende, affascinanti ma prive di prove documentali.
Vale però la pena di chiederci: qual è la differenza, sul piano del principio informatore, fra la rifermentazione dei romani realizzata nei dolium (anfore) di terracotta e quella degli champenois ottenuta in bottiglia? Nessuna! Entrambe danno le bollicine, la “presa di spuma”!
I vini con le bollicine (ivi compresi gli spumanti classici o tradizionali) si sono evoluti nel tempo, perché dapprima erano prevalentemente dolci (anche lo Champagne nacque dolce) e successivamente hanno virato verso il secco. Questo carattere ha consentito di usare gli spumanti sia come aperitivo che come accompagnatori di eventi festosi e sia come vini da tutto pasto.
Si può pertanto concludere affermando che lo spumante è un vino di grande ed antica civiltà e di raffinata arte enologica. I romani e gli italiani hanno contribuito sostanzialmente a scoprire i principi che governano i vini con le bollicine e a farli evolvere verso l’alta tecnologia che oggi tutti conosciamo. Non meno importante è stata la partecipazione romana ed italica nella individuazione dei vitigni autoctoni e tradizionali più idonei alla spumantizzazione e alla ricerca delle zone viticole più vocate a produrre basi (vini adatti ad elaborare spumanti di qualità). Se sul piano viticolo e tecnologico l’Italia possiede tutte le prerogative per diventare il più grande paese produttore di spumanti, sul lato dell’organizzazione commerciale i francesi, bisogna riconoscerlo, hanno saputo anticipare gli italiani, soprattutto valorizzando le denominazioni di origine.
L’editoriale è un estratto dell’articolo omonimo del professor Mario Fregoni ordinario di Viticoltura all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, pubblicato nel catalogo della Mostra Il vino tra sacro e profano [P. 279-284] allestita in Casanatense nel 1999.
Per saperne di più:
CATALOGO – Il vino tra sacro e profano: vite e vino nelle raccolte casanatensi. Roma, Biblioteca Casanatense, 1999
Le immagini che illustrano l’editoriale sono tratte dalle seguenti opere:
Fiori frutti fonghi e uccelli dipinti al naturale Ms. 1913
J.W.Weinmann, Phytanthoza iconographia… B.I.27 CC
G.W.Knorr, grappolo di uva moscatella M.II.15 CCC
incisore olandese sec. XVIII. grappoli di uva bianca e nera Q.IV.5.2 CCC