Autografi e postille nelle raccolte casanatensi: una lettura grafologica di Paola Urbani
In ogni presentazione di autografi di personaggi più o meno famosi, l’intento è aggiungere alla conoscenza della loro vita un piccolo tassello di storia, ricostruire episodi magari minori del loro privato o aspetti pubblici meno conosciuti. All’ombra di opere a cui resta affidata la memoria, essi tessevano, al pari di qualunque altro mortale, relazioni umane, avevano preoccupazioni pratiche, mantenevano rapporti formali: la loro personalità si rifletteva in mille specchi diversi.
Il contenuto degli scritti, l’occasione e il contesto che li hanno ispirati, sono un primo evidente specchio che ne illumina il quotidiano; la scrittura come supporto materiale del pensiero è un secondo in cui si riflettono le qualità innate del carattere e si rappresenta una ideale gerarchia di valori. La grafologia come tecnica di interpretazione della scrittura, dotata di un proprio lessico, principi e una classificazione, nasce alla fine del sec. XIX con Michon, il primo che ha saputo coronare con il suo Système de graphologie del 1875 una ridda di tentativi spesso superficiali.

Michon si basava su principi derivati a un tempo da Descartes e al sensismo di Condillac; la convinzione di una corrispondenza biunivoca tra movimenti fisiologici e psicologici gli permetteva di considerare i canoni della grafologia validi per scritture di ogni tempo e luogo, e di fondarla come scienza. Da allora in poi, pur proseguendo nel solco che egli aveva tracciato, la grafologia è però cambiata, acquistando una consapevolezza nuova delle sue potenzialità e dei suoi limiti. Crépieux-Jamin mise in dubbio l’esistenza di una relazione fissa tra segno grafico e segno psicologico, evidenziando l’importanza del modello calligrafico di partenza e del contesto grafico, Klages e Pulver sottolinearono la sua natura di strumento flessibile, legata anche all’interprete che non tanto decodifica quanto esplora la dimensione simbolica della scrittura, conducendo la grafologia a condividere il fascino e i rischi di una ermeneutica della personalità.
Il ritratto grafologico ammette quindi di essere un punto di vista, rigoroso quanto possibile, ma parziale, uno specchio che riflette la personalità, ma uno specchio infedele; del resto non è questo forse un limite necessario per qualunque indagine sulla natura umana?
Oltre all’intima relazione che si instaura tra scrivente e grafologo, e mette in causa entrambi, un terzo elemento viene poi alla ribalta quando si analizzano scritture di personaggi noti. E il rischio di sovrapporre all’analisi ciò che si conosce di loro a partire dalle opere. Un errore che non ha risparmiato insigni grafologi: tra i primi Moretti che aveva esaminato un manoscritto di Giacomo Leopardi ritrovandone i tratti tipici della poetica leopardiana. Purtroppo il manoscritto non era del famoso poeta, ma dell’omonimo nipote!
Siamo sfuggiti a questa tentazione? Era possibile o auspicabile sfuggirne? In altre parole, è meglio ignorare o sapere di chi sia la scrittura che si sta analizzando?
Ormai è communis opinio tra i grafologi la necessità di avere delle informazioni di base sull’autore dello scritto che comprendano almeno il sesso e il suo status sociale e professionale, e, secondo alcuni, tutte le informazioni che è possibile raccogliere. La scrittura viene considerata allora come una tra le tracce che l’uomo lascia del suo percorso, forse più autentica e meno peritura di altre, ma neppur essa autosufficiente. Così, rinunciando alla pretesa di fornire l’unica “vera” strada d’accesso alla personalità, l’analisi grafologica può trarre gran giovamento confrontandosi con la filosofia dello scrivente, e con la sua storia personale: per questa ci siamo serviti, talvolta, di aneddoti che rispetto alle biografie, animate di solito da intenti laudativi, sono meno lusinghieri e spesso racchiudono in una sola frase, o gesto, un intero universo simbolico.

Antonio Canova

Presentare questi autografi casanatensi anche dal punto di vista grafologico può riservare quindi, come ci auguriamo, alcune sorprese, ma non è uno spiare personaggi famosi “dalla scala di servizio”, non è scoprire un “dentro” invece di un “fuori”, un privato che nessuno conosce rispetto a ciò che è di pubblico dominio. La scrittura, soprattutto quando si tratta di lettere dirette a un destinatario, fa il suo ingresso anch’essa dalla porta principale, è controllata, annunciata, e ogni tentativo di analizzarla deve tener conto, talora per contrastarle, più spesso per sfumarle o confermarle, anche di altre letture. Poiché scrivendo ci si rivela, ma anche ci si nasconde e, negli autografi, si trovano allacciati, come in qualunque altro prodotto umano, l’essere e l’apparire, il carattere e gli ideali, in nodi ambigui, talora inestricabili.

Il testo dell’editoriale di Paola Urbani è tratto dal Catalogo della mostra In margine: autografi e postille nelle raccolte casanatensi, Roma Aisthesis, 1999.