Sport acquatici nel Tevere di Sabina Fiorenzi

[…] Roma nasce dall’acqua, non c’è alcun dubbio su questo: Enea, profugo di Troia, viene dal mare; Roma venne fondata da Romolo, che assieme al suo gemello fu salvato dalle acque del fiume nel quale venne esposto e la città si sviluppò nei secoli tra Tevere e Tirreno.
Niente di più naturale dunque per i romani che attribuire un grande valore al fatto di saper vivere nell’acqua – sul loro fiume prima e più tardi nel mare – altrettanto bene che sulla terraferma. Essi imparavano a nuotare con naturalezza nel Tevere: il grande fiume era parte integrante della loro vita di tutti i giorni grandi e piccoli vi si bagnavano, soprattutto per sfuggire alla canicola estiva. Ma quali erano i momenti che vedevano questa attività organizzata in vere e proprie occasioni sportive, così come le si può intendere ai giorni nostri?

I ludi, festività le cui celebrazioni assolvevano le esigenze della religione che necessitava dei suoi riti e quelle del popolo che reclamava le sue feste. Così, inseriti nei programmi dei festeggiamenti, in teorico subordine rispetto a complesse e lunghe cerimonie religiose, gli esercizi sportivi non erano mai gare fine a se stesse: è pleonastico l’esempio delle Olimpiadi, la vita dell’uomo antico affondava le sue ragioni nel sacro e la sua quotidianità procedeva di pari passo con quella degli dei dell’Olimpo. Per quanto riguarda poi le attività fisiche legate all’acqua è necessario sottolineare come queste non fossero strutturate agonisticamente al pari di quelle “terrestri”: il loro esercizio era per lo più strumentale, saper nuotare o saper remare erano fondamentalmente attività utili e solo occasionalmente queste capacità venivano utilizzate per agoni sportivi, quale le naumachie, cioè gli spettacoli di combattimenti navali, i quali, a dire il vero, stanno agli sport acquatici così come i giochi gladiatori stanno alle attività ginniche o di lotta libera: infatti, a queste gare non era tanto importante partecipare (come avrebbe affermato molti secoli più tardi il creatore delle moderne olimpiadi, Le Coubertin) quanto vincere, là dove vincere era sinonimo di sopravvivere. Almeno fino alla occasione successiva.

Anche i giochi gladiatori, prima di divenire appannaggio quasi esclusivo dello Stato o dei potenti privati, nascevano per celebrare qualche dio, sostituendosi, almeno all’origine, ai primitivi sacrifici umani alle divinità.
I protagonisti di questi attesissimi eventi, i gladiatori, avevano un’accurata preparazione atletica: i loro padroni gestivano delle vere e proprie case-palestra, dove questi uomini, per lo più prigionieri di guerra, schiavi rei di qualche colpa, ma anche uomini liberi caduti in disgrazia e desiderosi di riscatto, vivevano sottoposti a un regime di stampo militaresco.
La loro attività principale era l’allenamento in vista dei combattimenti nel circo: è ovvia la considerazione che dalla forma fisica e dalla conseguente perizia e abilità dipendesse la loro vita e che quindi questi disgraziati si impegnassero a fondo nella preparazione atletica e al combattimento.
Ma che gli uomini fossero preparati, allenati, feroci e combattivi era anche finalità precipua del padrone, perché queste caratteristiche li rendevano ambiti e, per così dire, commercialmente più interessanti.

Dopo che nel 46 a.C. a Roma Cesare ideò la prima ricostruzione di una battaglia navale, in un lago artificiale fatto appositamente scavare nel Campo Marzio, probabilmente l’importanza del nuoto crebbe in seno alle discipline preparatorie dei ludi gladiatori.
In quel caso si affrontarono la flotta tirana e quella egiziana: furono imbarcati per combattersi 6000 uomini ed è lecito immaginare che moltissimi fra questi cadessero nell’acqua coperti di ferite e appesantiti dalle armature. Ci si augura (per un senso di pietà tutto moderno che ci fa auspicare per costoro almeno una chance di sopravvivenza) che fossero stati impartiti loro gli insegnamenti che Vegezio, nel trattato De re militari (di cui si riporta un brano tratto da un’edizione del 1551) ci tramanda come obbligatori nell’addestramento dei soldati romani:

Tutti i giovani soldati nel tempo della state debbono imparare a notare, perciocché non sempre si passano i fiumi co’ ponti, ma spesse volte, tanto l’esercito, che va innanzi, che quello che segue, è costretto a notare. Et assai volte un picciol rio suole ingrossare per la subita pioggia et il non saper notare non solamente fa incorrere nel periglio de’ nemici, ma de l’acque altresì, la onde gli antichi romani, i quali erano stati addestrati in tutti gli esercitij militari, per le tante guerre et i continui perigli, in cui tante volte s’erano ritrovati, havevano deputato il Campio Marzio, vicino al Tevere, dove i giovani soldati, essendosi affaticati nell’armi, si lavavavo il sudore et la polvere ch’eglino avevano addosso, ed essendosi stracchi, et affaticati per correre, si riposavano col notare. Ne’ solamente è cosa utilissima, che imparino a notare i fanti a piedi, ma ancora i cavalieri et gli istessi cavalli et i ragazzi, i quali chiamano Galliani, acciocché occorrendo non accada cosa alcuna per ignoranza (…)” (Libro I, p. 15).

Cesare stesso, soldato per eccellenza, fu ottimo nuotatore: durante l’assedio di Alessandria, caduto in mare, rischiava seriamente la vita. Lo impacciava la lunga veste, il cui color porpora gli attirava gli strali degli egiziani, che in essa riconoscevano il grande nemico; con la sinistra reggeva fuori dall’acqua i suoi preziosi diari, a che non si perdessero bagnandosi. Ciononostante, si liberò della veste, la tenne stretta tra i denti per non perderla e, aiutandosi solamente con la mano destra, riuscì a trarsi in salvo sulla nave dei soccorritori.
Il particolare tipo di nuotata che Cesare adottò in quella circostanza venne codificata sotto il nome di “nuoto di Cesare” e illustrata nei moderni manuali di nuoto, come la più adatta per procedere nell’acqua, sorreggendo con una mano qualche cosa che non si voglia far bagnare.
Alla fine del ‘700 Oronzio De Bernardi ne L’uomo galleggiante ne dà accurata descrizione, avallando senza dubbi la tradizione svetoniana, anzi raccomandando al Maestro di nuoto l’insegnamento di questa tecnica.

Dopo Cesare quasi tutti gli imperatori organizzarono battaglie navali. spesso sfruttando allo scopo i grandi circhi edificati per i combattimenti dei gladiatori.
In occasione dei festeggiamenti per la grande impresa del prosciugamento del lago Fucino voluta da Claudio, nell’estate del 52 a.C., prima di procedere all’operazione, si allestì in esso una grandiosa battaglia fra le flotte rodiese e siciliana a cui parteciparono 100 navi con a bordo 16.000 uomini (si stenta veramente a crederlo!!).
Un episodio curioso e comico caratterizzò quella memorabile giornata: avendo i morituri – come da copione – salutato Cesare e quello risposto “Salute a voi!”, i valorosi, ma comprensibilmente non troppo entusiasti di morire, ritennero che il saluto dell’imperatore li facesse salvi e pertanto si rifiutarono di combattere.
Pare che Claudio, così almeno ci tramanda Svetonio, restasse interdetto e a lungo dubbioso se fare tutti a pezzi e dar fuoco alle navi. Poi prevalse il buon senso, o forse solamente il rammarico di dover perdere così grande spettacolo: l’imperatore si acconciò a recarsi personalmente a convincere gli uomini, minacciando e blandendo, col risultato che tutti combatterono “con un coraggio degno di soldati valorosi” (Tacito, Annales, XII) e a coloro i quali non trovarono la morte venne fatto dono della libertà.

Nei mesi estivi, l’esigenza di trovare nell’acqua un sollievo dall’insopportabile canicola e quella di celebrare le feste delle divinità si coniugavano nei ludi piscatori. Per onorare il dio Tevere, la dea Fortuna e Nettuno si affollavano il fiume e le sue sponde con piccole barche e capanne di frasche ornate di fiori e i giovani (quirites, come li chiama Ovidio nei Fasti, nei quali ci tramanda brevi descrizioni in versi di queste feste) risalivano e discendevano la corrente, ingaggiando piccole competizioni, ma soprattutto, mangiando e libando a volontà […]
Durante i secoli XVI, XVII, XVIII il corso delle barchette e le gare di nuoto vennero effettuate, sia pure con fortune alterne, assumendo col passare del tempo anche connotazione laica, poiché queste manifestazioni erano spesso inserite tra i festeggiamenti organizzati per nascite di pargoli reali, ingressi in città di teste coronate, celebrazioni di vittorie guerresche.
Le cronache di questi secoli riportano tali avvenimenti, naturalmente annoverandoli tra gli spettacoli ai quali si poteva assistere durante l’estate, lungo quella sponda del Tevere, detta comunemente Ripetta o intorno all’isola di S. Bartolomeo, l’isola Tiberina. […]

Ma al di fuori delle occasioni festive e “sportive” l’abitudine dei romani di prendere bagni nel Tevere era talmente inveterata, diffusa e liberamente esercitata che ogni anno il Governo Pontificio doveva emanare bandi che ne regolassero esplicitamente le modalità. Ma non furono mai certamente editti, né quante altre disposizioni la polizia poté escogitare a scoraggiare i tanti appassionati del fiume.
Quelli che, con appellativo tutto romanesco, venivano chiamati fiumaroli, non appena la stagione lo consentiva, scendevano al fiume, sulle cui rive trovavano fin dalla metà dell’ 800 degli improbabili spogliatoi, detti comunemente capanne. Là potevano lasciare vestiti ed effetti personali, prima di tuffarsi allegramente e cominciare a nuotare, se erano in grado di farlo; oppure mettersi a sguazzare nell’acqua e frescheggiare, attaccati saldamente a canapi, tesi a questo scopo, anche tra una sponda e l’altra. C’erano anche coloro i quali, desiderosi di imparare, si legavano addosso, a mo’ di galleggianti, le famose cocuzze cioè zucche svuotate, che funzionavano perfettamente da salvagente: grazie ad esse, anche i più inesperti potevano avventurarsi al largo, molto spesso tra i frizzi e i lazzi dei fiumaroli d.o.c. Famose capanne erano quelle che sorgevano di fronte al porto di Ripetta, alla Renella, a S. Anna de’ Bresciani. Col passare degli anni, già alla fine del secolo XIX e agli albori del XX, sorsero veri e propri stabilimenti, organizzati, oltre che come base d’appoggio per spogliarsi, anche come punti di ristoro, ancorché rustico e alla buona, e come scuole di nuoto.

La Rari Nantes e la Scuola romana di nuoto annoverano fra i loro campioni atletici giovanotti provenienti dagli strati più umili della popolazione. Il Tevere è democratico, non fa differenze sociali: acqua e sole ce n’è per tutti, a portata di mano, non occorrono quarti di nobiltà o portafogli rigonfi per poterne approfittare.
Le gare di nuoto si organizzano frequentissimamente durante i mesi estivi, ma anche in inverno i fiumaroli veraci non disdegnano di bagnarsi.
Eroici navigatori di tutte le nazionalità compiono eccezioni traversate e viaggi fluviali, come il capitano Boyton, il quale, messosi in viaggio da Orte, raggiunge Ripagrande il 21 gennaio 1877.

Le pubbliche autorità non cessano di emettere ordinanze per regolamentare la pratica dei bagni al fiume. Nell’estate del 1877, per esempio, vengono precisamente indicate le capanne autorizzate a gestire questa attività balneare: quelle destinate agli uomini rigidamente separate da quelle per le donne.
Per i primi sulla destra del Tevere, al centro del porto di Ripetta, al Ponte Sant’Angelo, all’Acqua fresca, fuori porta del Popolo; sulla sinistra del fiume dietro S. Giovanni dei Fiorentini e sotto il pubblico mattatoio.
Alle donne erano invece destinati i bagni sulla destra del Tevere a monte di Ponte Milvio e vicino al ponte di Ripetta, sotto il ponte di ferro. A tutti era proibito uscire dalle capanne non correttamente abbigliati, sia sulle rive che in barca. I ragazzi e le ragazze al di sotto dei 15 anni potevano circolare e bagnarsi solo se accompagnati da adulti. Era severamente proibito far bagnare gli animali nelle adiacenze delle capanne e per loro c’erano spazi destinati e abbigliamento raccomandato […].

Intanto cresce la consapevolezza dell’importanza dell’apprendimento del nuoto per tutti: se ne teorizza la straordinaria efficacia per lo sviluppo armonico del fisico e quindi l’indispensabile necessità del suo insegnamento, anche in considerazione del gran numero di morti affogati, che ogni anno il Tevere colleziona, con macabra serialità.
Infatti, sui quotidiani romani e nazionali alle notizie delle imprese compiute dai vari campioni di nuoto romani e non durante le gare organizzate sul fiume si affiancano i trafiletti che riportano le tristi storie dei tanti annegati in esso.
E’ impressionante la sequela quasi giornaliera di queste cronache, principalmente in estate, quasi a dimostrare che, malgrado la popolarità della pratica del bagno, moltissimi erano coloro che, pur frequentando il fiume, ne rimanevano vittima, sia per imperizia nel nuoto sia per imprudenza: bambini o adulti caduti in acqua, catturati dalla corrente vorticosa, i cui corpi il fiume non restituisce che nei giorni seguenti.
Per non parlare dei tanti suicidi che sceglievano il Tevere per mettere fine a una vita di stenti, oppure a causa di un amore non corrisposto o comunque travagliato: l’estate è il momento peggiore.

Di pari passo con lo sviluppo e la strutturazione delle attività natatorie si osservano la nascita e la crescita del canottaggio, inteso come vera e propria attività sportiva agonistica: alla fine dell’ 800 vengono fondate la Società Tevere Remo, il Club del Remo, il Circolo Aniene, tutti circoli a cui appartengono, per lo più, esponenti dell’aristocrazia e dell’alta borghesia, data la necessità di dover disporre di imbarcazioni e quindi far fronte a spese non indifferenti.
Il neonato regno unitario vede l’infittirsi delle competizioni di nuoto e di canottaggio sulle acque del Tevere: esse sono aperte a concorrenti che provengono da tutto il Paese e ottengono uno strepitoso successo di pubblico.

Il fascismo attribuisce allo sport la grande importanza che tutti sanno, sia sotto il profilo igienico – per il miglioramento della razza – sia per l’educazione morale e civica dei giovani che, abituati al rigore e alla disciplina sportivi – che comunque richiedono impegno, sacrificio, obbedienza per raggiungere risultati che facciano grande la Patria – potranno più facilmente adattarsi a quella militare.
Il nuoto e il canottaggio a Roma escono così dal dilettantismo tipico dell’ 800 e del primo ‘900 per assumere una connotazione fortemente agonistica, forse più negli intenti, che nelle metodologie seguite.
Per ottenere risultati che siano comparabili con quelli delle altre grandi nazioni, si cerca di dare impulso a queste due discipline, rafforzando l’organizzazione delle Federazioni sportive nazionali.
Per quanto riguarda il nuoto, ci si rende conto che per allenarsi correttamente non si può attendere la bella stagione, che consente di bagnarsi sia in mare che nel fiume, e poi rimanere inattivi per mesi e mesi. L’antitodo per questo inconveniente, che limita le grandi possibilità dei nuotatori italiani in generale e dei romani in particolare, è quello di costruire piscine, scoperte e coperte, così come da anni si va facendo in tutti i paesi europei, per non parlare degli Stati Uniti.
L’aspirazione del regime di uscire dal provincialismo italiano per misurarsi con i campioni stranieri e possibilmente vincere il confronto, è una delle motivazioni (non la sola, naturalmente) per cui si costruiscono a Roma impianti sportivi dotati anche di piscine con trampolini, questi ultimi indispensabili per poter incrementare anche la disciplina dei tuffi acrobatici.
Tra gli impianti più completi si annovera quello dell’ex Foro Mussolini, oggi Foro Olimpico, inaugurato dal duce nel 1932. […]


L’editoriale è un estratto dell’articolo Tevere e sport di Sabina Fiorenzi, pubblicato nel catalogo della Mostra Roma, la città dell’acqua allestita in Casanatense nel 1994.

Le immagini che illustrano l’editoriale sono tratte da O. De Bernardi, L’uomo galleggiante o sia L’arte ragionata del nuoto. Napoli, 1794 2 v.
Rari 1046

Per saperne di più:
CATALOGO – Roma, la città dell’acqua. Roma, De Luca, 1994