Editoria teatrale a Roma nel diciottesimo secolo di Anna Alberati

Nella Roma dei Pontefici la passione per il teatro era fortemente sentita, specie per quello musicale dove Pietro Metastasio dominava incontrastato. Tra le varie forme di intrattenimento alcune si svolgevano per strada con funanboli, cantastorie, spettacoli con la lanterna magica e riscuoteva un grande successo il teatro di burattini messo in scena a piazza Navona, a Trastevere o in case private. La commedia dell’arte, talvolta recitata in dialetto romanesco, stava per tramontare mentre grande attenzione era rivolta al teatro straniero, specie francese.
Ci furono molti tentativi di riforma del teatro tragico ad opera di scrittori, intellettuali, attori e capocomici che scrissero testi tragici e trattati teorici sulla tragedia cercando di far emergere le caratteristiche di un dramma nazionale nuovo nella forma e nel contenuto. Ma il modello di Corneille e di Racine era così sentito che i testi erano di fatto imitazioni e rifacimenti del teatro francese.
La distanza tra impegno teorico e realizzazione pratica è riscontrabile nel teatro di Pier Jacopo Martello che risente parzialmente degli influssi francesi ma dove forte è la presenza del teatro greco e di quello italiano del Cinquecento.
A Roma tra il 1709 e il 1715, Martello ebbe un legame esclusivo con l’editore Gonzaga presso il quale stampò tutte le sue opere composte nel periodo romano, compresi i trattati teorici Del verso tragico (1709) e Della tragedia antica e moderna (1719).

Malgrado la popolarità e l’entusiasmo del pubblico, a Roma le rappresentazioni teatrali non avevano una protezione ufficiale, erano sottoposte a censura e appena tollerate. Daniele Concina, frate domenicano, attaccò in tre violente dissertazioni Scipione Maffei e Lodovico Antonio Muratori sostenendo la amoralità del teatro, fonte di licenziosità e concupiscenza.
Ma l’ultima, edita nel 1755 a Roma dagli eredi Barbiellini, De’ teatri antichi e moderni contrari alla professione cristiana libri duo, ebbe ben poco seguito: il pubblico settecentesco non giustificava più queste posizioni così retrive, preferendo opuscoli moderati come quello di Giovanni Antonio Bianchi De i vizi e de i difetti del moderno teatro che tentava di conciliare il teatro con la morale cristiana. All’inizio del secolo gli spettacoli erano allestiti privatamente, nei palazzi di principi e cardinali o in alcuni collegi ecclesiastici. In questi, in particolare, i testi religiosi messi in scena furono lentamente integrati da testi francesi in traduzione italiana, dalle tragedie di Corneille fino alla Zaïre di Voltaire.
A seguire i Teatri pubblici aprirono o ingrandirono le sale, costruite quasi esclusivamente in legno, dove i nobili e la gente di rango occupava i palchi mentre la classe media e il popolo affollava la platea.
Nei teatri della Pace, delle Dame, ai Coronari, al Capranica, all’Argentina, al Tordinona e al Valle furono rappresentate commedie, drammi musicali, tragedie e oratori di successo, resoconti dei quali possiamo trovare nei periodici romani dell’epoca o nei diari di viaggiatori stranieri come Goethe, che ebbe la fortuna di assistere all’Aristodemo del Monti al Teatro Valle il 14 gennaio 1787.

Le commedie di Goldoni erano rappresentate a Roma sin dal 1753, La donna di garbo e L’erede fortunata al Pallacorda, La famiglia dell’antiquario e La locandiera al Pace (1754), Le donne curiose sempre al Pace, L’amante militare al Tordinona, Il feudatario e La Pamela al Valle (1755), La finta ammalata, Il presuntuoso, Il festino, La Cantarina al Capranica (1756).

Tra il 1753 e il 1765 furono rappresentati nei teatri romani non meno di settanta spettacoli tra commedie e intermezzi per musica.

Goldoni soggiornò a Roma dal dicembre 1758 fino al 2 luglio 1759, come si può leggere nelle sue Memoires dove dedica quattro capitoli a questa sua permanenza. Particolarmente dettagliata è la descrizione dell’insuccesso della Vedova spiritosa, scritta in versi martelliani per Venezia nel 1757 e ridotta in prosa per essere recitata al Tordinona.
L’autore attribuisce il fiasco all’abitudine romana di assegnare le parti da donna ad attori uomini e alla compagnia di comici napoletani abituati a recitare in maschera “On leve la toile: les personnages paroissent, et jouent comme ils avoient répété. Le Public s’impatiente, on demand Polichinel, et la Piece va de en pis…” (C. Goldoni, Memorie, a cura di Guido Mazzoni, Firenze, G. Barbera, 1907, v. 2, p. 107).
Da notare che la commedia era stata dedicata alla giovane duchessa Giacinta Orsini Boncompagni Ludovisi, nota in Arcadia col nome di Euridice Ajadicense, ammirata per l’abilità poetica e per la sua bellezza. Il testo a stampa fu edito da Fausto Amidei nel 1759, poco prima che la duchessa morisse di parto il 9 luglio dello stesso anno. Nel Settecento in Italia era praticamente impossibile per uno scrittore vivere della sua penna, senza avere ricchezze di famiglia, esercitare una professione autonoma come medico, insegnante, uomo di chiesa, bibliotecario o senza il sostegno di qualche mecenate al quale dedicare i propri scritti. Inoltre era diffuso il fenomeno delle stampe incontrollate, specie nel settore della poesia e del teatro, dove venivano pubblicati componimenti poetici inediti o commedie recitate nei teatri ma non riviste e corrette adeguatamente dall’autore.
E’ nota la controversia tra il Goldoni e l’impresario Girolamo Medebach che aveva ceduto i copioni di alcune commedie all’editore Giuseppe Bettinelli di Venezia per l’edizione uscita tra il 1750 e il 1757. Goldoni non era in grado di sapere con certezza quante sue opere fossero state stampate in Italia, ne conosceva solo venti edizioni come affermava nella lettera ad Antonio Zatta, premessa al primo volume dell’edizione di Venezia del 1788-1795: “Voi volete dunque, valoroso e benemerito signor Zatta, intraprendere la ventesima edizione delle mie Opere. L’impresa è coraggiosa, e pare a prima vista pericolosa, ma il credito de’ vostri torchi può risvegliare la curiosità in quelli che lette e rilette avranno le mie commedie, e di me conservano grata e indulgente memoria. Voi mi domandate la permissione di mettere l’idea vostra in esecuzione, urbanità da pochi editori verso di me praticata…” (C. Goldoni, Tutte le opere, a cura di Giuseppe Ortolani, Milano, Mondadori, 1956, v. 14, p. 398).

Lo stretto rapporto tra editoria e gli apparati della censura ecclesiastica e di Stato ponevano un ulteriore limite al concetto di proprietà intellettuale, basti pensare alla polemica intercorsa tra il gesuita Girolamo Tiraboschi e il frate domenicano Tommaso Mamachi per la pubblicazione a Roma tra il 1782 e il 1797 della Storia della letteratura italiana.
Il Tiraboschi si oppose con fierezza alle accuse di poca ortodossia cattolica riuscendo a confinare le osservazioni del Maestro del Sacro Palazzo in nota e debitamente controbattute, ma indicativa è la premessa al primo volume, dove sono esposte le motivazioni della ristampa e la certezza di trovare a Roma un pubblico in grado di apprezzare un’opera così erudita e voluminosa “Se si riguardi al numero di dieci, o undici Tomi v’era da temere, che non incontrasse il primo luogo per essere letta. Dall’altro canto la soda, e vasta eruditione che contiene, la purgata e sana critica da cui è accompagnata, tuttociò che racchiude il giudizio è tale, che non può assolutamente ignorarsi da chi professa o ama le Lettere.” (St. della letteratura italiana, v. 1, p. V-VI).

Iniziato con lo zefiro dell’Arcadia il secolo terminò squassato dalla tempesta rivoluzionaria giunta d’Oltralpe. Ma l’aria delle nuove idee, nel suo obbligatorio “grand tour”, fece solo tappa nella sonnolenta Roma dei Papi senza mutarne natura e vocazione. Un po’ come tutti i giovani colti e perbene dell’Europa in fermento che visitarono e ammirarono la Città Eterna originando al massimo qualche targa commemorativa peraltro di gran lunga postuma. Anche la Repubblica Romana, in fondo, fu dai più vissuta come un enorme graffito vandalico sui monumenti della cristianità, che si pensò potesse essere presto cancellato.